Jan Palach si dette fuoco giusto cinquant’anni fa, il 16 gennaio 1969, nella piazza Venceslao di Praga per protestare contro la normalizzazione imposta dal regime sovietico con l’invasione di Praga, cioè la deposizione con la forza dei blindati del governo di Alexander Dubcek. Morì dopo tragiche sofferenze tre giorni dopo. E proprio il 19 gennaio, cioè dopodomani, la Fondazione Luigi Einaudi di Roma, in ricordo del suo gesto simbolico, deporrà una corona di fiori davanti al Memoriale celebrativo (alla manifestazione interverranno, fra gli altri, l’ambasciatore italiano Francesco Saverio Nisio, il direttore dell’Istituto di cultura Giovanni Sciola e, per la Fondazione, il presidente Giuseppe Benedetto e Giulio Terzi di Sant’Agata).
Si trattava di un governo, quello deposto, che, pur rimanendo comunista, concepiva un “socialismo dal volto umano”, cioè detto in soldoni, aperto a qualche piccola riforma e apertura in senso liberale e democratico (si parlò di “primavera di Praga”). Ma, come sapeva bene Leonid Breznev, il leader sovietico di allora, se in un regime totalitario aprì una piccola finestra la forza del vento che soffia fuori può spazzare via tutto. Palach non fu il primo e né l’ultimo a togliersi la vita per protestare conto il regime sovietico, e non solo in Cecoslovacchia. Il suo gesto però fece clamore e il suo nome divenne un simbolo per quanti combattevano in nome della libertà contro l’oppressione comunista. Palach da allora appartiene a quella non folta schiera di personalità eroiche che hanno sacrificato la loro vita per una causa giusta. Nel loro sacrificio, noi ricordiamo quella causa e di conseguenza anche la situazione storico-politica che la generò e che come monito vorremmo evitare in futuro. Il mondo era allora diviso in due blocchi contrapposti che avevano al centro, rispettivamente, una nazione democratica, gli Stati Uniti, è uno Stato che, in nome di un ideale astratto, aveva assunto sin dai suoi primi passi i plumbei caratteri del totalitarismo. Quella che il mondo libero combatteva allora era una vera e propria guerra, seppur “fredda” come fu detta, di ispirazione ideale e persino religiosa. In quanto mondo libero, esso aveva il nemico anche al proprio interno: pena contraddirsi, non poteva sopprimerlo del tutto come avveniva oltre la “cortina di ferro”. E nemici dell’Occidente erano sicuramente tutti coloro, soprattutto intellettuali, che non vedevano, o non volevano vedere, lo stato di prostrazione in cui versavano i cittadini, europei per giunta, dell’altra parte di mondo. E che del sacrificio di Palach quasi se ne infischiarono, o addirittura lo delegittimarono considerandolo una vittima della “propaganda imperialista” o un pazzo.
La postuma “vittoria” di Palach si avrà solo nel 1989, tanti anni dopo, quando tutto il blocco comunista, a cominciare dallo Stato-madre, implose miseramente e marcò il fallimento politico, economico, morale di una ideologia falsa. Da quel momento, Praga è ritornata a far parte di quel mondo libero europeo di cui per molti versi è stata da sempre uno dei centri vitali. La storia del sacrificio di Palach non è però finita: continua ancora oggi, e bene fa la Fondazione Einaudi a ricordarcelo. Certo, il mondo è da allora molto cambiato anche per i cechi, ma l’Europa che hanno trovato continua a non capirli fino in fondo. Costruita su basi burocratiche e centralistiche, l’Unione Europea di oggi ha poco di quello spirito liberale che aleggiava negli scritti e nei discorsi dei padri fondatori (alcuni almeno) o, più tardi, di un Vaclav Havel (il primo presidente della Cecoslovacchia libera, e l’ultimo di quello Stato a doppia nazionalità). I cechi, la cui identità era stata soppressa dai russi, si sono ritrovati in un contesto che vorrebbe affermare una libertà disincarnata dalla concreta appartenenza nazionale. La loro protesta, che ha preso forma nel cosiddetto “gruppo di Visegrad, è, al di là delle forme e dei modi, su cui ognuno può avere i suoi giudizi, in sostanza ancora contro il materialismo: non più quello storico-dialettico dei comunisti, ma quello senza valori dell’Europa di oggi. Palach non può più parlare e non possiamo nemmeno immaginare come oggi la penserebbe. Fatto sta che il suo sacrificio ci ricorda che la storia si muove non solo con gli interessi, ma anche con la forza degli ideali.