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La disoccupazione che cresce è un duro monito per il governo

Welfare lavoro giovani occupazione

Brutte notizie sul fronte della disoccupazione. Gli ultimi dati Istat ne mostrano un brusco risveglio, dopo anni di relativo calo. Si tratta di 78mila lavoratori, in un solo mese, costretti a veder nero nel loro futuro più immediato. Ed il fatto che il fenomeno abbia interessato soprattutto le donne (4mila in meno, contro i 24mila degli uomini, tra i soli lavoratori dipendenti) è solo la ciliegina su una torta indigesta.

La maggioranza parlamentare ha fatto finto di nulla. Ha guardato al bicchiere mezzo pieno. Nello stesso mese, infatti, l’occupazione è aumentata di circa 9mila unità. Più in particolare sono cresciuti i lavoratori a tempo indeterminato (37mila), mentre sono diminuiti quelli a tempo determinato (13mila) e gli indipendenti a partita Iva (16mila). Di fronte al paradosso di un simmetrico aumento dell’occupazione e della disoccupazione (sebbene quest’ultima in proporzione decisamente maggiore) Luigi Di Maio ha tirato un sospiro di sollievo. Non sarà pieno, ma almeno mezzo gaudio.

E, invece, non era proprio il caso, se solo avesse sollevato il capo oltre la sindrome dell’autocontemplazione. Ci sarà pure da preoccuparsi se il fenomeno si manifesta per la prima volta dopo ben quattro anni vissuti, indubbiamente, pericolosamente. Ma meno peggio di quanto le cose potrebbero andare in un futuro prossimo venturo. Dal novembre del 2014, infatti, il tasso di disoccupazione, in Italia, è progressivamente diminuito. Fino a raggiungere il punto di minima, nel settembre di quest’anno. Il movimento, anche allora, non era stato lineare. Qualche colpo era andato a vuoto prima del varo del jobs act. Ma le perdite di posti di lavoro, cumulate in un anno, erano state inferiori a quelle registrate nel solo mese di ottobre.

A trainare, seppure stancamente, la situazione italiana era stato un tasso di crescita maggiore di quello che si prospetta nel prossimo triennio e le flessibilità introdotte dal jobs act. Durante questo lungo intervallo, i lavoratori a tempo indeterminato erano diminuiti di 164mila unità, mentre quelli a tempo determinato aumentati di circa 684mila. Con un saldo netto di oltre mezzo milione. Di cui – cosa tutt’altro che trascurabile – la maggior parte: occupazione femminile.

Con il decreto dignità questa dinamica si inverte completamente. Nel nobile intento (chi può negarlo?) di rendere più stabile il posto di lavoro, la lunghezza massima dei contratti a termine scende da 36 a 12 mesi (salvo casi particolari). Scarse o nulle le possibilità di rinnovo. Scelta anche possibile, come ha mostrato l‘esperienza degli anni ’70, ma alla sola condizione di accrescere contestualmente il volume degli investimenti. Per recuperare produttività con l’innovazione di processo, per reggere alla concorrenza internazionale. Ma se gli investimenti si riducono, come nel caso della “manovra del popolo”, l’unica possibile conseguenza è una crescita del tasso di disoccupazione.

Ragionamenti estranei alla retorica grillina. Ai quali manca del tutto una lettura convincente della crisi italiana. I dati di lungo periodo della dinamica del mercato del lavoro offrono indicazioni preziose per comprendere non solo l’economia, ma la società italiana. Ed i cambiamenti intervenuti nel profondo. La più lunga crisi di questo dopoguerra ha prodotto trasformazioni importanti nei comportamenti individuali. Dal 2011, le famiglie italiane, di fronte alle incertezze delle prospettive ed al crollo del proprio reddito, si sono mobilitate. Hanno abbandonato vecchie abitudini e si sono riversate, in modo massiccio, sul mercato del lavoro. Hanno fatto, in altre parole, ciò che non è riuscito allo Stato italiano. Hanno cercato di produrre di più, per poter vivere meglio e non rinunciare ad un più antico benessere. Altro che “decrescita felice”.

Da allora il tasso di attività della popolazione italiana è passato da poco più del 61 per cento (dato più o meno storico) al 65,8 per cento. Con un aumento superiore ai 4 punti percentuali. Circa un milione e mezzo di new entry. Con le donne che hanno fatto la parte del leone. Mentre il tasso di attività della popolazione maschile è rimasto, più o meno, stazionario, l’offerta di lavoro da parte delle donne è cresciuto di 10 punti. Sono stati sforzi ripagati? Solo in parte. Poco meno della metà (1,8 per cento) ha trovato occupazione. Il resto ha solo ingrossato, nonostante il jobs act che rendeva più semplice un loro inserimento, seppure condizionato, le file dell’esercito di riserva.

Il senso di frustrazione, che traspare da queste cifre, è evidente. Nel “mondo di sotto” l’impegno individuale ha mostrato un volto, fino a qualche anno fa, sconosciuto. Si sono superati vecchi schemi e abbattuto barriere culturali. Alle quali il “mondo di sopra“ ha risposto con disinteresse. Preoccupato soprattutto di difendere i propri esclusivi ed invalicabili confini e le proprie consorterie. Si spiega così la rabbia maturata e la svolta impressa alla politica italiana. Ma questo rimane solo il semplice capitolo di una vicenda che non finisce con il nuovo anno. Quelle contraddizioni rimangono irrisolte. Forse destinate ad aggravarsi ulteriormente, vista la pochezza dimostrata nel varare una manovra che si voleva pomposamente “del popolo” ed invece si è risolta in un debole vagito.


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