La Francia ha diffuso una dichiarazione critica contro l’Iran che ha un paio di dimensioni politiche interessanti: vediamo.
Parigi richiama la Repubblica islamica sul programma missilistico che sta portando avanti, perché “non è conforme” con la risoluzione 2231 con cui nel 2015 le Nazioni Unite hanno bloccato i progetti sui vettori balistici iraniani. Teheran in quello stesso anno ha firmato il Nuke Deal — l’accordo per congelare le ambizioni sul nucleare militare degli ayatollah stretto con i paesi del sistema multilaterale 5+1 (Francia, Cina, Russia, Regno Unito, Stati Uniti e Germania) — che non prevedeva aspetti riguardo i missili, questione teoricamente coperta dalla risoluzione Onu.
Parigi sta sostenendo l’accordo come la gran parte dei paesi europei, nonostante l’uscita trumpiana del maggio scorso (questo è uno degli elementi che hanno creato la distanza tra l’Europa e gli Stati Uniti di Donald Trump). Però la Francia è stata anche uno dei Paesi più critici durante la fase di costruzione dell’intesa, quando la diplomazia dell’amministrazione Obama scalpitava per arrivare al deal. E in questo momento ha una delle posizioni più dure con Teheran in mezzo all’Ue.
Parigi ha pressato per alzare nuove sanzioni contro due soggetti iraniani e un’agenzia di intelligence di Teheran colpevoli di aver pianificato lo scorso anno (a giugno a Parigi e a ottobre in Danimarca) attentati — sventati — contro il gruppo di opposizione iraniano Mek. Le sanzioni sono state attivate in settimana da Bruxelles e sono le prime dal 2015.
La posizione francese è rilevante, anche perché si allinea con la traiettoria che gli americani hanno seguito per uscire dall’accordo sul nucleare. Washington era partita dalle critiche sul programma missilistico, per poi passare al sistema di influenza strisciante con cui Teheran si sta giocando la sua partita per la dominazione del Medio Oriente. Posizioni condivise con Israele e Arabia Saudita, che – spiegavano gli americani – dimostravano come, al di là del rispetto tecnico delle clausole dell’accordo sul nucleare, all’Iran stesse mancando lo spirito di riqualificazione offerto dall’Occidente quattro anni fa.
La Francia, con Total e con alcune case automobilistiche, è stato anche il primo Paese a ritirarsi dal business che il deal nucleare aveva riaperto con il mercato iraniano – l’accordo prevedeva il sollevamento delle sanzioni, e dunque l’Iran tornava un attore di mercato potabile. Il ritiro americano s’è portato dietro tutto il vecchio pacchetto sanzionatorio, un sistema che prevede misure punitive non solo nei confronti delle ditte iraniane, ma anche – attraverso ritorsioni di ordine secondario – anche contro quelle di altri Paesi, colpite sui loro business negli Stati Uniti.
Washington ha concesso ad alcune nazioni, come l’Italia, delle esenzioni temporanee per mantenere in piedi non tanto gli scambi in generale, quanto l’asset petrolifero di questi: gli americani sapevano che tagliando immediatamente la possibilità di esportazione del petrolio iraniano avrebbero creato uno scossone di mercato (con rialzo dei prezzi) e hanno preso un percorso graduale.
Il ritiro delle imprese francesi dal business americano è percepito positivamente da una Casa Bianca che cerca nei propri alleati fedeltà e allineamento. La dichiarazione del ministero degli Esteri arriva in una fase in cui le relazioni tra Parigi e Washington, e in particolare quelle personali tra Trump e Emmanuel Macron, non sono rosee, ma è stata accolta positivamente dall’amministrazione statunitense.
Il portavoce del dipartimento di Stato, Robert Palladino, ha condiviso il communiqué francese sul suo profilo Twitter istituzionale, dicendo che gli Stati Uniti hanno “apprezzato la forte dichiarazione della Francia”, aggiungendo che “il mondo sta riconoscendo la piena grandezza della minaccia iraniana”. Commento che arriva a due giorni dal discorso in cui il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha delineato quella che è sembrata la nuova strategia americana in Medio Oriente – Pompeo ha parlato dal Cairo, criticando le apertura che il presidente Obama aveva concesso all’Iran nel 2009 in un altro famoso discorso sempre dalla capitale egiziana.
La linea americana è chiara: il contenimento dell’avventurismo iraniano nella regione mediorientale è una necessità politico-strategica, sia per gli Stati Uniti che per gli alleati nevralgici nell’area (sauditi e israeliani). Su questo Washington chiede fermezza a tutti i propri partner. Nei giorni scorsi la Francia ha anche parlato della necessità arrivare a una soluzione per la pace in Yemen, dove i ribelli nordisti Houthi, collegati all’Iran, tre anni fa hanno lanciato un’offensiva rovesciando il governo di Sanaa. Alcuni paesi delle regione, capitanati dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti, hanno lanciato una campagna militare per tamponare l’azione dei ribelli, che però non ha ottenuto successi e anzi ha prodotto molti danni collaterali.
Parigi ha sottolineato come i negoziati di Stoccolma per rappacificare il paese stanno portando frutti – nei mesi scorsi il Pentagono e il dipartimento di Stato americano hanno fatto pressioni apertamente su questi colloqui. L’opinione pubblica occidentale è molto interessata a sottolineare la crisi umanitaria e le vittime civili prodotte dalle operazioni saudite, ma dimentica spesso che la crisi yemenita è stata causata dall’avanzata dei ribelli nordisti (che hanno agito anche armati dall’Iran). Qualche giorno fa, un drone kamikaze – identico a uno di fabbricazione iraniana – guidato dai separatisti è esploso sopra una parata militare uccidendo cinque soldati yemeniti e rischiando di rompere l’esile tregua che accompagna i negoziati onusiani.