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L’ex direttrice critica il New York Times perché troppo anti-Trump

Il dibattito socio-culturale americano ruota attorno al libro — in uscita il 5 febbraio, ma anticipato nei giorni scorsi dai media principali — di Jill Abramson, direttrice del New York Times dal settembre 2011 al maggio 2014. In Merchant of the Truth, Abramson critica la china presa dal suo ex giornale e dice che sta percorrendo una direzione “inequivocabilmente anti-Trump”. Troppo schierato.

Dean Baquet, l’attuale direttore già esposto a critiche simili, aveva dichiarato di non voler trasformare il giornale — indiscutibilmente tra i più autorevoli del mondo — nel “partito di opposizione”, ma per Abramson tra i contenuti ci sono troppe opinioni contro il presidente passate da news analysis. Forse meglio la misura di imparzialità applicata dal super-rivale commerciale del Nyt il Washington Post, dice — e non che il Post sia un giornale morbido con Donald Trump, anzi è stato un altro serbatoio di scoop imbarazzanti per l’amministrazione e un suo giornalista, David Fahrenthold, ha vinto nel 2017 il Pulitzer per la copertura, non certo asservita, della campagna presidenziale dell’ex tycoon newyorkese arrivato alla Casa Bianca (tra i suoi articoli, l’inchiesta sulla gestione lasca della Trump Foundation, attualmente chiusa dopo le indagini giudiziarie avviate proprio da quegli articoli).

I maligni negli Stati Uniti traducono con l’equivalente americano dello “sta à rosica’” romano l’analisi velenosa dell’ex direttrice, che vede il media che guidava aver raggiunto livelli record di vendite (senza di lei, ma con lei non andava malissimo comunque). Niente è da escludere, ma sta anche qui (non senza malignità comunque, ndr) il punto. Abramson dice che il Times potrebbe essere motivato a inclinare ulteriormente la propria copertura dopo che il giornale ha aggiunto più di 600mila abbonati nei primi sei mesi successivi dall’inizio della presidenza Trump.

Il dato: nel 2017, le entrate degli abbonamenti al Times hanno superato il miliardo di dollari, grazie al picco degli abbonati digitali. Completamente all’opposto di quel che Trump dice — “fallito”, lo definisce. Ma il presidente concentra le sue accusa continue accuse sul Nyt perché se lo sente particolarmente vicino: tre quarti delle relazioni pubbliche costruite negli anni da Trump passa da New York, città in cui il Times trova base locale al fenomeno globale che è diventato nel tempo.

“Dato il suo pubblico per lo più liberale, c’è un implicito compenso finanziario per il Times nella gestione di molte storie su Trump, quasi tutte negative: hanno portato grandi numeri di traffico [al sito…] e hanno gonfiato le sottoscrizioni a livelli che nessuno aveva previsto”, ha scritto Abramson. Che però offre un assist al presidente: Trump ha lanciato una crociata contro i media, “the enemy of the people” li chiama. Li attacca quando danno coperture non favorevoli alla sua azione di governo, definisce “fake news” ogni scoop contro di lui, è una campagna di polarizzazione, i cattivi sono i contrari, i buoni quelli favorevoli, tipo l’amata Fox News.

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È una semplificazione che funziona su un elettorato disattento, che non si cura troppo di certe dinamiche: che però funziona anche in senso opposto. Il New York Times resta il tempio del giornalismo, ma forse cede un po’ cercando consenso e compensi. Le notizie non sono certamente false o alterate, i fatti valgono più di tutto, le storie continuano a seguire un rigido protocollo di conferme e fact checking, nel caso di errori ci sono correzioni trasparenti. E forse l’interesse nella copertura eccessiva della presidenza si lega anche al clima divisivo negli Stati Uniti e al ritorno in revenue. Finché dura. “Ho cancellato l’abbonamento, perché era diventato noioso: le prime quattro notizie che mi apparivano sull’applicazione erano sempre e solo su Trump”, mi ha detto un amico attento osservatore dei fatti internazionali e per lavori interessato alle loro interpretazioni giornalistiche.

 

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