“Non so se ci si può fidare dei talebani, consentire loro di controllare l’intero Afghanistan significherebbe creare una centrale strategica del jihadismo, considerando anche il loro rapporto stretto con al Qaeda che tornerà ad essere la minaccia principale”. Andrea Manciulli, presidente di Europa Atlantica, esperto e studioso di terrorismo, è preoccupato dalle notizie su possibili accordi tra Stati Uniti e talebani mentre consiglia prudenza e saggezza sull’ipotesi di ritiro del contingente italiano.
Il passo avanti nelle trattative tra gli Stati Uniti e i talebani ha un minimo di solidità o siamo ancora alla teoria?
La supposizione di un dialogo con i talebani va avanti da tempo, era in corso anche durante la presidenza Obama, ma i nodi dell’insistenza talebana in Afghanistan non sono affatto sciolti, anzi sono sempre più preoccupanti. Già oggi i talebani controllano più del 30 per cento del territorio ed è in atto una loro espansione nelle zone rurali: un accordo significa dunque concedere loro l’Afghanistan? La probabilità che riescano a conquistare tutto il territorio è elevatissima e, a mio avviso, qualsiasi accordo che preveda uno Stato afghano di impronta talebana sarebbe un pericolo perché sarebbe comunque basato sul fondamentalismo: i talebani non hanno mai disconosciuto l’aiuto dei movimenti qaedisti.
È credibile l’impegno talebano a combattere il terrorismo come avrebbero detto nelle trattative con gli americani?
Hanno sempre combattuto contro il gruppo del Khorasan, affiliato all’Isis in quell’area, ma non hanno mai smesso di proteggere al Qaeda che in questi anni si sta riorganizzando. Sono convinto, anzi, che tornerà ad essere la minaccia numero uno: la porosità delle montagne tra Afghanistan e Pakistan e il rapporto con la shura di Quetta dimostrano che il movimento talebano non ha mai tagliato questo cordone ombelicale. Non ci sono le condizioni per potersi fidare.
Se le cose stanno così, gli Stati Uniti cercano comunque un accordo per tentare di uscire dalla guerra, anche se i talebani non vogliono trattare con il governo di Kabul?
Bisogna vedere se questo è il punto di vista di tutti gli americani. Oggettivamente nel campo dell’antiterrorismo americano non vedono con grande favore questa soluzione, anzi da tempo l’intelligence nei suoi documenti evidenzia una nuova centralità sul fronte Afpak, soprattutto sull’irradiamento del fronte jihadista in Asia. Il recente e bel rapporto del Soufan Center di New York è dedicato proprio al tema di al Qaeda nel subcontinente indiano e il suo rapporto fortissimo con l’Afghanistan, terra che ha un rapporto altrettanto evidente con il nuovo fronte del jihadismo uzbeko, il più pericoloso tra quelli nelle ex repubbliche sovietiche, e con la minoranza uigura in Cina. In sostanza, ormai quasi tutti gli analisti considerano l’Afghanistan un territorio di scambio e di proliferazione del jihadismo che lo circonda.
Una proliferazione che gode anche del ritorno di molti foreign fighter dal teatro siro-iracheno.
Con il collasso dell’Isis in Siria si pensava a un ritorno massiccio di foreign fighter verso l’Europa. La realtà, invece, dimostra che, passando attraverso l’Iran, il rientro dei foreign fighter è indirizzato verso il fronte Afpak e per la prima volta c’è una doppia direzione: ci sono i foreign fighter del fronte sunnita filo-Isis e foreign fighter sciiti della minoranza azara afghana creando così le condizioni di uno scontro sciita-sunnita tra i ritornati dalla Siria che può aggravare il quadro dell’Afghanistan.
L’attentato nelle Filippine, che ha causato decine di vittime ed è stato rivendicato da Abu Sayyaf, gruppo affiliato all’Isis, e la riorganizzazione di al Qaeda confermano che il quadrante asiatico è un reale pericolo per tutto il mondo?
Appare abbastanza evidente che c’è una ripresa del qaedismo: nel programma di Osama bin Laden del 2004 al Qaeda preconizzava l’espansione dei fronti in modo che per l’Occidente fosse difficile affrontare un sistema terroristico globale. Oggi c’è un’espansione del qaedismo in Africa e in Asia con una rinnovata mobilità del gruppo dirigente di al Qaeda. Rischiamo davvero di creare una centrale strategica del jihadismo.
L’improvvisa iniziativa del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, sul possibile ritiro entro 12 mesi del contingente italiano in Afghanistan ha sorpreso tutti. Come la valuta?
Bisogna sempre stringersi intorno all’interesse nazionale. Questi temi non vanno mai gettati nell’agone politico, c’è una tradizione nella politica estera e di difesa in Italia per cui vanno tenuti fuori e gestiti solo nell’ottica dell’interesse nazionale. Alla Nato il ruolo dell’Italia è sempre stato quello di contribuire alla saggezza e dobbiamo operare in questo senso. La vicenda afghana è rischiosa e l’Italia è uno dei Paesi più esposti alla proliferazione del terrorismo, anche per quello che succede nel Mediterraneo. Per questo dovremmo usare saggezza ed equilibrio su un tema come quello dell’Afghanistan su cui non si possono prendere decisioni con leggerezza.
È realistico che in prospettiva l’Occidente abbandoni definitivamente l’Afghanistan?
Secondo me non lo è, i vicini chiedono che ci sia un graduale rafforzamento della dimensione statale afghana attraverso una presenza occidentale: non si esce da un giorno all’altro perché all’improvviso si rischia di trovarci di fronte a una centrale strategica del jihadismo, cioè a tutto ciò che abbiamo cercato di combattere in questi anni.