La vicenda della Sea Watch e della Sea Eye, le due imbarcazioni delle Ong, che vagano nel Mediterraneo, sta sempre assumendo le caratteristiche di una storia infame. In cui i diversi protagonisti perseguono strategie comunicative che, solo in parte, hanno a che vedere con il dramma dei 49 migranti, da giorni e giorni, sballottolati dalle onde di un mare sempre più cattivo.
Cominciamo dalle due navi che battono bandiera olandese e tedesca. Il vessillo di una nave impegna la propria Nazione. Se segue una politica non condivisa dalle rispettive Autorità va sanzionata. Comunque la responsabilità ultima fa sempre capo al Paese che ha concesso l’uso della propria bandiera. Se la Sea Watch, che ha i colori tedeschi, nel raccogliere i migranti nelle acque della Sar libica, come sembra provato, non li ha consegnati alle vedette di quel Paese, nasce un problema nei rapporti tra la Germania e la Libia. E sarà di Berlino l’onere di decidere se riconsegnare i migranti a Tripoli oppure ospitarli nel proprio territorio.
Diverso il caso della Sea Eye. Il vascello batte bandiera olandese, ma appartiene ad una Ong tedesca, che ha sede in Baviera. E già su questo sdoppiamento ci sarebbe da discutere. Altra incognita è quella relativa al punto in cui gli emigranti sono stati raccolti. Probabilmente nelle acque libiche o maltesi. La Sar italiana, infatti, dista oltre 100 miglia marine dalla costa libica. Distanza difficilmente raggiungibile con un semplice barchino. Di Maio ha minacciato le Ong. In caso di contrasto farà intervenire il Ministro Toninelli, per accertare il punto preciso del salvataggio. Dovrebbe farlo a prescindere, per stabilire alcuni elementi di verità.
Resta comunque il fatto che la ricerca di un porto sicuro non può essere affidata alla libera scelta degli equipaggi delle due imbarcazioni. Gli accordi internazionali parlano dell’approdo più vicino. Dovrebbe, quindi, essere Malta la naturale destinazione. Se le relative Autorità oppongono un rifiuto, è la comunità internazionale che deve intervenire. L’Italia, comunque, non c’entra. Si trova in una posizione analoga, dal punto di vista del diritto internazionale, alla Spagna o alla Francia. Ed allora come si spiega la proposta congiunta (Luigi Di Maio – Giuseppe Conte) di accogliere solo donne e bambini?
La risposta è evidente: pura competizione nei confronti dell’alleato Salvini, già alle prese con l’obiezione di coscienza di molti sindaci e, ora, del Presidente della Regione Toscana. Sotto gli occhi vigili del Presidente della Camera: capo dell’ala movimentista dei 5 stelle. L’esigenza è quella di rinserrare le file di un esercito, che mostra evidente i segni di sbandamento e, al tempo stesso, contenere la “resistibile ascesa” della Lega. Obiettivi comprensibili, ma che poco hanno a che vedere con l’etica e l’afflato umanitario.
Non meno discutibile la posizione delle Ong: prendete in carico tutti gli emigranti, o non si muove nessuno. Una giustificazione pelosa: non separare il nucleo familiare. Come se non fosse questa la condizione permanente che caratterizza, purtroppo, il fenomeno dell’immigrazione. Quindi una reazione vestita di nobili sentimenti ma che, in realtà, mira a vincere una partita tutta politica. Il diritto delle Ong di gestire in prima persona il flusso dei migranti e costringere i singoli Stati a seguirli in questa avventura.
Resta infine la posizione dell’Unione europea. Le spaccature politiche all’interno dei singoli Stati sono evidenti. In Germania, molte autorità locali si sono dichiarate disposte ad accogliere i migranti. Ma i governi hanno tirato il freno. Nessuno vuol cedere al di fuori di un accordo quadro, senza il quale si creerebbe un pericoloso precedente. Ed allora il risolvibile tema dei 49 derelitti diventa drammatico. Sottoposto alle complesse liturgie che caratterizzano ogni accordo europeo, che diventa quasi impossibile, se molti Paesi si considerano da essi, comunque, svincolati.
La mancata soluzione del problema è figlia di tutte queste contraddizioni. Resta il sentimento di umana pietà, nei confronti di uomini, donne e bambini prigionieri di un mare in tempesta. Ma il rispetto di un pur nobile sentimento non può aggirare il tema del “bilanciamento”. Il considerare, cioè, quegli elementi, posti anche su un piano diverso, ma capaci, tuttavia, di circoscriverne la portata assoluta.
La prima considerazione riguarda la necessità di una lotta senza quartiere contro i trafficanti di carne umana, tenendo conto del numero di coloro – e sono migliaia – che sono rimasti a terra. Rinchiusi in quella sorta di lager che sono i centri di accoglienza in territorio libico. Dare un porto sicuro ai 49 emigranti contribuisce a favorire o incrementare quei traffici? Fornire una speranza individuale di salvezza, al di là delle buone intenzioni delle Ong, è un freno o un incentivo? Comporterà fenomeni emulativi o rinunce, per quanto dolorose? E di conseguenza: quale sarà la sorte delle rimanenti migliaia di persone, che non hanno potuto pagarsi l’ultimo biglietto del viaggio della speranza? Possiamo salvarci l’anima dando asilo ad un pugno di migranti e lasciare marcire tutti gli altri? O non bisogna affrontare il problema alla radice, nelle sedi internazionali più opportune: dall’Europa all’Onu?
C’è infine la real politique che è la componente essenziale di qualsiasi politica estera. Ignorarne le implicazioni significa solo dare alimento al mostro delle reciproche ritorsioni. Si pensi solo ai difficili rapporti tra Malta e l’Italia. Cosa che rende tutto ben più difficile, è evidente, infatti, che solo il convergere verso posizioni condivise può rappresentare una barriera, per quanto sottile, in grado di regolare un flusso migratorio, che ha ragioni epocali. Ne deriva che non servono fughe in avanti, specie se queste negano in radice la politica precedentemente seguita. Possono, forse, mettere in pace la coscienza di chi le propone, ma non contribuiscono minimamente alla soluzione del problema. Anzi rischiano solo di aggravarlo.