L’incontro con la neo(ri)eletta speaker Dem della Camera, Nancy Pelosi, era quasi un obbligo per il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, in visita a Washington. Non c’è solo una qualche attenzione da riservare anche all’ala democratica, che ha preso il controllo dell’assise dei deputati dopo le Midterms e sfiderà la presidenza Trump il prossimo anno, ma sopratutto c’è il contatto continuativo che Roma mantiene con il mondo effervescente e forte degli italo-americani, di cui Pelosi – nata D’Alessandro da un nonno molisano, d’Isernia – è una dei massimi rappresentanti, alla stregua del segretario di Stato Mike Pompeo (i suoi bisnonni paterni erano abruzzesi).
La speaker, mercoledì sera, era l’ospite speciale di una cena di gala organizzata dall’ambasciatore Armando Varricchio, a Villa Firenze (tra gli altri invitati Bill Clinton e gli ex segretari di Stato Hillary Clinton e John Kerry): il diplomatico è il curatore organizzativo della visita di Moavero, trovando ottime sponde tra i corridoi di amministrazione, Capitol Hill e think tank (luoghi in cui nascono le policy e le dottrine politiche).
Moavero ha già avuto un incontro con alcuni studiosi impegnati sui rapporti transatlantici, provenienti dal German Marshall Fund, Heritage Foundation, Sais della John Hopkins, e Center for Strategic and International Studies (per il Csis c’era la vicepresidente senior Heather Conley, di cui al link un’analisi uscita sulla rivista Formiche): attenzione alla sicurezza, alla difesa, al commercio e agli investimenti: “Un forte legame transatlantico è il fondamento delle nostre democrazie, libertà e prosperità”, ha commentato il capo della diplomazia italiana.
L’agenda del ministro è fitta di appuntamenti: cena col suo omologo Pompeo, dopo degli incontri alla Casa Bianca con il consigliere alla Sicurezza nazionale, John Bolton, e il consigliere Jared Kushner, e meeting al Congresso – dove è in programma un incontro con Bill Pascrell e Mark Amodei della Italian American Congressional Delegation, il raggruppamento bipartisan di senatori e deputati italo americani che i due co-presiedono.
L’attenzione dedicata dagli americani al capo della Farnesina rispecchia l’interesse che Washington ha nel nostro Paese – i congressisti, e Pelosi è una dei due leader assoluti dei due partiti, sono impegnati nel braccio di ferro dello shutdown, il clima politico è caldissimo, ma a Moavero è stato comunque concesso tempo.
L’amministrazione Trump, che ha costruito col governo Conte una relazione basata molto sul feeling diretto tra i due leader, vede nell’Italia un buon alleato all’interno dell’Unione Europea. Relazioni che a cinque mesi dalle elezioni che decideranno i prossimi componenti del parlamento Ue vanno ulteriormente intensificate, perché il modo con cui la Washington trumpiana guarda all’Europa è piuttosto sovrapponibile a quello dell’esecutivo giallo-verde.
Altri importanti alleati europei degli Stati Uniti hanno ognuno le proprie ragioni per essere distanti: in Francia, Emmanuel Macron ha raffreddato i suoi rapporti con Donald Trump, e dal “siamo due Maverick” del francese s’è passati al sostegno dell’americano alla protesta dei Gilet Gialli; in Germania non c’è mai stato reale allineamento col governo Merkel, troppe distanze basate sostanzialmente sullo scontro tra grandissimi e su una necessità di riequilibrio globale di impegni e coinvolgimenti che la Casa Bianca trumpiana spinge da sempre e che Berlino finge di ignorare; con Londra c’è una relazione speciale storica, ma anche polemica sulla poca convinzione per la gestione della Brexit (dopo della quale, comunque, il Regno Unito non sarà più un pezzo di Ue, e questo nell’ambito del dialogo con gli europei, gli Usa lo comprendono).
Poi questioni più specifiche: l’Iran, per esempio. Washington ha inserito l’Italia tra i pochissimi waivers a cui sono stati concessi sei mesi per chiudere le proprie relazioni con Teheran ed evitare che le ditte italiane finiscano sotto misure sanzionatorie secondarie – negli Stati Uniti – per fare affari con la Repubblica islamica (contro cui gli americani hanno ri-schierato tutta la panoplia di sanzioni dopo essere usciti dall’accordo sul nucleare del 2015). Ma l’Italia forse necessita di più tempo: ci sono affari in corso, difficili da chiudere con scadenze ristrette. Il dipartimento di Stato ha già fatto sapere il mese scorso che le esenzioni non saranno rinnovate, ma trattative bilaterali – quelle preferite da Trump – magari potrebbero portare a designazioni puntuali.
E ancora, il Medio Oriente. Moavero sta pianificando un viaggio nel quadrante, passando per Israele, e in questo l’incontro con Kushner – genero-in-chief a cui il suocero presidente ha appaltato il dossier israelo-palestinese – potrebbe avere anche un senso di coordinamento sulle posizioni.
Di più, sempre dall’area. L’annuncio, poi rientrato nei fatti, del ritiro americano dalla Siria crea un elemento di disequilibrio: da almeno quattro anni gli americani guidano (per impegno in numeri e fondi) la Coalizione internazionale che nel Siraq combatte il Califfato, e l’uscita delle forze speciali Usa dal territorio siriano potrebbe significare un maggiore coinvolgimento degli alleati – gli italiani sono già in Iraq, e dai territori del Kurdistan seguono l’addestramento dei Peshmerga, mentre circolano da molto tempo voci mai confermate su una guarnigione discretamente schierata al fianco degli specialisti statunitensi nel sud della Siria, là dove i baghdadisti si sono rintanati nell’ultimo anno. È possibile che in futuro si debba fare di più.
Stesso discorso per la pratica Afghanistan. I rumors da Washington dicono che Trump avrebbe intenzione di dimezzare il suo contingente nel Paese, dove l’America è coinvolta nell’ambito di una missione Nato movimentata dopo il 9/11. Anche qui, i soldati italiani sono molti, circa 800, e per Roma serve di capire come muoversi, con che tempi, e quale coordinamento, se e quando l’assenza di migliaia di americani creerà vuoti che potrebbero essere riempiti dai Talebani, tornati all’offensiva da mesi.