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Morire in un mare senza umanità circondato da politiche sbagliate. Parla Ripamonti

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“Ogni morte, anche se fosse una, ci dovrebbe interrogare, ci dovrebbe fare chiedere come una persona sia potuta morire affogata nel Mediterraneo, per quale motivo, e se le politiche messe in atto siano adeguate. Invece sembra che tutto possa essere discusso tranne che le politiche dei singoli stati e dell’Unione Europea. Questa tragedia ci conferma purtroppo che non è così. Non andiamo nella direzione giusta, quindi dobbiamo cambiare direzione; non serve bloccare i flussi migratori, non serve chiudere i porti, quello che serve è soccorrere e garantire un’accoglienza dignitosa”.

Padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, la sezione italiana del Jesuit Refugee Service, parla con voce pacata ma lenta, mentre segue le notizie su questo ennesimo naufragio nel Mediterraneo, seguendo la certezza che altre vite siano andate perse in un mare trasformato in deserto, senza soccorritori, senza controlli, cioè senza umanità. Troppo facile, forse addirittura strumentale, chiedergli dei piccoli che erano a bordo e non ci sono più, della giovane incinta, degli adolescenti. No. Queste verità della cronaca sono note a lui come a tutti, ma l’indifferenza è tale davanti all’abbandono di tutti coloro che possono morire e in questo tragico caso sono morti, gli anziani come gli uomini robusti, le madri come alla ragazze. Ma non interrogarsi su noi stessi, sulle scelte compiute dai singoli Stati e dall’Europa, indica davvero indifferenza? E se così fosse non si dovrebbe cercare il perché di questa indifferenza difficile da capire, da giustificare, da accettare. Forse un motivo per questa indifferenza sta nei vocaboli. Parlare genericamente di migranti e non di fuggiaschi può legittimare l’idea di una libera scelta, cioè di persone che hanno compiuto una libera scelta migratoria invece che quella di una fuga alla ricerca della salvezza, che può comportare anche il rischio di morire.

“È difficile distinguere e quindi dividere. Le situazioni dei paesi di provenienza sono molto spesso di emergenza, altre di grave instabilità, o di pericolo. Ma i racconti ci dicono che molto spesso, quando il mare è grosso e la traversata rischiosa, queste persone vengono imbarcate forzatamente: quindi qui siamo davanti a un’ulteriore variante, che troppo spesso non viene considerata”.

Poi ci sono le condizioni in cui queste persone si trovano in Libia, spesso imprigionati in autentici lager dove le torture sono ormai documentate. Si può parlare parlare genericamente di migranti per chi fugge da questo Monte Calvario? “Prendiamo il Global Compact, dove si è distinto tra migranti e rifugiati: nelle condizioni che ho provato a descrivere prima è sempre più difficile definire, perché si confonde il limite della migrazione e quello della fuga alla ricerca di un rifugio. Per questo la Santa Sede ha ritenuto che fosse opportuno non separare ma unire migranti e rifugiati, non cercare una tipizzazione che è oggettivamente molto complessa. Si è preferito dividere, ma pur avendo effettuato questa scelta di separare nel Global Compact gli uni dagli altri bisogna constatare che oggi non ci sono neanche politiche migratorie, politiche cioè rivolte a quelli che gli Stati definiscono migranti”.

E anche le politiche per i rifugiati sono formali ma non sostanziali. Come offrire rifugio a un fuggiasco che ha diritto alla protezione internazionale che si trovi ancora in Libia? Ma fermare qui la discussione oggi rischia di far sparire i responsabili di quello che appare proprio un omesso soccorso: la guardia costiera libica rivendica, o rivendicherebbe, la propria responsabilità nel pattugliamento e nel controllo delle acque libiche. C’è qualcuno che può essere ritenuto responsabile del riconoscimento di un soggetto inadeguato, o che lo può riconoscere come tale? “La questione non è formale, non si tratta di cercare i fori competenti o cose del genere, la questione vera è che il soccorso in mare è una cosa molto, molto complessa, richiede l’impegno di diversi attori e l’aver tolto di mezzo le Ong, quasi tutte le Ong, rende evidentemente tutto più complicato. Il guaio è che non accettiamo di ridiscutere le nostre scelte, di capire che sono le politiche ad essere sbagliate”.



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