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I piccoli comuni dimenticati

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La vicenda della reazione di alcuni sindaci di grandi città (Palermo, Napoli, Firenze) al così detto “decreto sicurezza”, più che sul problema dell’ordine pubblico, dovrebbe richiamare la nostra attenzione sul ruolo dei comuni nella struttura istituzionale dell’Italia.

Innanzi tutto va richiamata l’attenzione sul fatto che, quando si parla di comuni, si è portati a pensare ai grandi comuni quali, appunto, Palermo, Napoli, Firenze, Milano. Si perde di vista il fatto che il 96% dei comuni italiani ha meno di 20.000 abitanti e il 75% meno di 3.000 abitanti. I problemi sollevati dal così detto “decreto sicurezza” sono molto più pressanti nei piccoli comuni che nei grandi comuni, comunque dotati di tecnostrutture sofisticate.

Il problema qui è duplice: da una parte garantire dimensioni adeguate alle funzioni da svolgere e, da un’altra parte, garantire ai piccoli comuni la possibilità di far sentire la loro voce nei processi decisionali. Vediamo i due aspetti separatamente.

Le piccole dimensioni. A partire dal 2010 (DL 78 trasformato nella legge 210/78) ci si è imbarcati nel tentativo di “forzare” i piccoli comuni a gestire in maniera associata i propri servizi e magari a fondersi. Sembra di poter leggere, tra le righe dei provvedimenti normativi nazionali e dei conseguenti provvedimenti regionali, l’obiettivo di raggiungere agglomerati tra i 5.000 ed i 10.000 abitanti. L’iniziativa ha scarso successo, malgrado il fatto che alcune Regioni (segnalatamente la Toscana) abbiano messo sul piatto sostanziosi incentivi per i comuni che si associano o fondono. Qui ci si è dimenticati di alcune cose e segnalatamente:

(a) del fatto che, dopo la riforma fascista del 1934, la dimensione media dei comuni italiani risulta già la più grande in Europa (all’incirca allo stesso livello della dimensione raggiunta in Germania con la riforma del 1972);

(b) del fatto che 5 mila o diecimila abitanti non garantiscono affatto economie di scala

(c) il piccolo comune rappresenta il vero nucleo della democrazia e dell’identificazione del cittadino con la cosa pubblica; la bassa partecipazione al meccanismo elettorale è ampiamente bilanciata dal coinvolgimento, spesso informale, dei cittadini nella vita dei piccoli comuni; va qui richiamato il fatto che in Francia, dove esistono ben 34.000 comuni (contro i ca. 8.000 italiani), non si è tentato di risolvere il problema delle economie di scala fondendo i comuni quanto trasferendo i servizi industriali (e i tributi ad essi collegabili) ad una dimensione intermedia tra la Provincia ed il Comune, lasciando il piccolo comune come nucleo di democrazia (rimandiamo qui ad un convegno organizzato da Formiche.net presso il Centro Studi Americani di Roma; in un momento in cui i cittadini si sentono poco rappresentati dalla cinghia dei partiti non appare una buona idea indebolire il momento di reale coinvolgimento dei cittadini nella cosa pubblica; il suggerimento qui è quello di non mortificare la piccola dimensione come momento di partecipazione e di enucleare una dimensione più vasta come momento di gestione di servizi tecnici.

Offrire ai Comuni la possibilità di far sentire la propria voce. Qui il problema si presenta, di nuovo, per i comuni medio-piccoli, dal momento che i comuni di grandi dimensioni se la sbrigano già bene. Il problema sta nel tipo di associazionismo dei nostri comuni. Di fatto i nostri comuni sono rappresentati da una sola associazione, l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI), anche se esistono altre due associazioni (la Lega delle Autonomie e ASMEL) cui, però, le strutture statali non riconoscono alcun ruolo (nella Conferenza Stato/ Autonomie Locali è l’ANCI l’interlocutore dello Stato). Nell’ANCI i piccoli comuni hanno poca influenza.

Per quanto è a mia conoscenza, solo in Italia esiste una associazione di Comuni che, di fatto, viene considerata come l’unica rappresentante della realtà municipale. Di solito si riscontrano associazioni differenziate, quali associazioni di piccoli comuni, di grandi comunità urbane, di comuni di campagna, di comuni turistici etc. Questa differenziazione funzionale facilita la rappresentanza degli interessi dei vari tipi di comuni. L’ANCI nel tempo è divenuto una sorte di interlocutore privilegiato dello Stato Centrale, con varie zone di opacità. Se si va a spulciare il bilancio ANCI si scopre che l’ANCI sopravvive grazie ai contributi statali per la gestione di attività specifiche di solito date in gestione a società di capitali partecipate dall’ANCI. Il rappresentante degli interessi dei Comuni è finanziato da quello stesso Stato nei confronti del quale dovrebbe rappresentare gli interessi dei propri associati! In questo intreccio i grandi comuni sanno cavarsela bene, mentre i piccoli comuni scompaiono.

Il suggerimento qui è quello di favorire una rappresentanza differenziata dei comuni e di far cessare il finanziamento surrettizio da parte del, Stato di attività di tipo economico dell’ANCI.

Un appello conclusivo. Se è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli è proprio dai dettagli che si dovrebbe iniziare per realizzare un vero cambiamento.

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