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Pompeo nel Golfo, mentre Washington perde il delegato per la crisi col Qatar

La diplomazia americana in Medio Oriente è in una fase delicata. Con una situazione complicata dall’annuncio, poi rivisto, dall’uscita dalla Siria – dove un gruppo di forze speciali che insieme ai curdi locali combatte lo Stato islamico ha un enorme compito di bilanciamento geopolitico del potere – Washington deve tenere rapporti e contatti con alleati, amici e nemici effervescenti, in mezzo a turbolenze interne.

Nei giorni scorsi il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, era a rassicurare gli israeliani e poi è volato in Turchia, dove gli equilibri del rapporto tra Washington e Ankara tornano a scricchiolare – il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha dato buca al consigliere della Casa Bianca, indispettito per le dichiarazioni sulla Siria (stabilità, sicurezza per i curdi davanti all’avventurismo turco) fatte dall’americano durante la visita israeliana.

Ieri, l’omologo turco di Bolton ha dichiarato che un’operazione dei suoi soldati nel nord siriano può “avvenire in qualsiasi momento”, e oggi il ministro degli Esteri di Ankara ha attaccato gli americani che da anni lavorano con i terroristi (intendendo i curdi siriani) e ha chiesto alla Russia di seguire in coordinamento l’occupazione dello spazio (si intende politico, ndr) che un’eventuale uscita americana creerà. Questa uscita è tutt’altro che immediata, ma la Turchia sfrutta l’occasione per mettere pressione su Washington.

Il segretario di Stato, Mike Pompeo, è ancora nella regione, per un viaggio a più tappe dove toccherà tutti gli alleati statunitensi, passando anche attraverso la divisione intra-Golfo col Qatar – lo stop dei rapporti con Doha deciso il 5 giugno 2017 da un gruppo di paesi guidato da Arabia Saudita ed Emirati Arabi che accusano i qatarini di legami col terrorismo (e ne contestano i rapporti amicali con l’Iran). Il viaggio di Pompeo è funzionale anche a recuperare parte di questa spaccatura, ed è fortemente interessato, in paesi dove gli Stati Uniti continuano a non avere un ambasciatore (nel caso, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar).

Gli Stati Uniti hanno ottimi rapporti con Riad e Abu Dhabi, ma hanno come obiettivo ristabilire la stabilità: in Qatar, ad Al Udeid, c’è la principale base aerea nella regione e hub del comando strategico che segue l’area (il CentCom). Però il tour è viziato da una sorpresa non troppo gradevole arrivata il giorno in cui Pompeo è atterrato nel Golfo.

Anthony Zinni, inviato speciale degli Stati Uniti con delega alla risoluzione delle crisi del Qatar dall’agosto 2017, s’è dimesso. Tecnicamente, Zinni – generale in pensione chiamato al dipartimento di Stato per la sua esperienza, già inviato in Medio Oriente con l’amministrazione Bush figlio, poi comandante del CentCom – dice che le tempistiche non sono sovrapponibili, ma complicano la vita a Pompeo. Secondo quanto riporta The National (il principale media emiratino), ha detto anche di essersi dimesso per l’incapacità di concordare una linea da seguire per impostare lo sforzo di mediazione con Doha – “Non penso che il mio lavoro sia necessario”, ha detto in una email alla Cnn.

C’è una critica interna, allo scarso coordinamento strategico americano nella gestione di certi dossier, ma anche esterna, verso alleati che – secondo quanto riportano fonti della rete televisiva, confermate da Zinni – non hanno voglia di parlarsi. È “un punto morto”, nessun intende risolvere lo stallo – diventato status quo – non ci sono progressi, dicono quelle fonti: che specificano che Zinni non ce l’ha con nessun di specifico.

Nell’amministrazione Trump, il generale Zinni ha avuto anche un altro ruolo importante: ha lavorato nel team che ha implementato la Mesa, ossia la Middle East Strategic Alliance, che giornalisticamente viene definita la “Nato Araba”. Un’alleanza militare ispirata appunto alla Nato, informalmente guidata da Arabia Saudita ed Emirati Arabi, a scopo di creare un corpo di difesa e sicurezza regionale. Obiettivo la lotta al terrorismo, ma anche il bilanciamento all’Iran.

La Nato Araba era stata progettata in partnership (o su idea) col ministro della Difesa saudita, ed erede al trono, Mohammed bin Salman, ed è applicata in versione beta nell’intervento contro i ribelli nordisti yemeniti Houthi. Al di là dei risultati non eccezionali, che hanno prodotto critiche sia negli Stati Uniti (al Congresso) che in altri paesi europei, l’anima della coalizione araba militare corrisponde a un’esigenza di disingaggio dagli affari regionali che nasce da prima dell’amministrazione Trump.

Zinni è un altro ex membro della squadra amministrativa proveniente dalle forze armate che si dimette: nel giro di pochi giorni hanno lasciato i loro incarichi il capo del Pentagono, James Mattis (ex generale dei Marines), il suo capo dello staff, Kevin Sweeney (ex ammiraglio della Us Navy), e prima ancora John Kelly, capo di gabinetto della Casa Bianca un tempo altro generale dei Marines.

 


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