Benjamin Netanyahu sembrerebbe in testa ai sondaggi. Il nuovo partito “la nuova destra” vuole fare concorrenza al Likud. La sinistra si divide, il centro aspetta di vedere se ci saranno nuovi candidati e la lista araba rischia di spaccarsi. Ecco gli sviluppi del panorama politico in vista delle nuove elezioni in Israele.
Nelle ultime due settimane ogni giornale pubblica un sondaggio: secondo una ricerca di Makor Rishon, Netanyahu insiste sulle elezioni che in realtà gli israeliani non vogliono, secondo Walla News Netanyahu rimane stabile con 30 mandati, seguito da Yesh Atid (C’è Futuro) con 17; Ma’ariv conferma la posizione del Likud anche se dovesse iniziare il processo contro Netanyahu, mentre Yesh Atid si rafforzerebbe di mandati a scapito dell’altro partito di centro capeggiato da Kahalon.
Ma le novità sono tante: la nascita di un partito di destra, la divisione della sinistra, e la partecipazione alle elezioni dell’ex Capo di Stato Maggiore Benny Gantz. Il 28 dicembre 2018, Naftali Bennett e Ayelet Shaked (rispettivamente ministro dell’Istruzione e ministra della Giustizia) del partito Casa Ebraica annunciano la nascita del partito “La Nuova Destra”. L’elettorato principale di Casa Ebraica era il pubblico religioso sionista, ma le ambizioni di Bennett vanno oltre. Le polemiche in cui si è invischiato il partito Casa Ebraica per le uscite di alcuni suoi parlamentari e l’ambiguità su diverse questioni sociali, in particolare per quanto riguarda le minoranze, le donne e la comunità Lgbt, non hanno giovato a Casa Ebraica. Il nuovo partito punta a un elettorato più ampio, laico e religioso, con una retorica anti-Likud: si presenta come la vera destra, contro il “blando” Netanyahu e il “fake” Gantz (come lo ha chiamato di recente Ayelet Shaked). La “Nuova Destra” vuole presentarsi come il vecchio Likud, eredi del sionismo revisionista, benché entrambi siano ben lontani dallo spirito liberale e dalla visione politica di Jabotinsky.
Netanyahu ha prevenuto la mossa di Bennett e Shaked con una serie di visite ai leader degli insediamenti, dove il Likud era calato nelle elezioni del 2015. L’elettorato religioso del Likud compone l’ala più di destra e si oppone alle visioni liberali cui l’ala laica è favorevole, ma più d’ogni altra cosa ritiene che altri partiti siano una mossa divisiva che indebolisce la politica di destra. Per quanto possano forse essere più d’accordo con l’agenda politica e con i valori di Casa Ebraica o di Nuova Destra, si fidano di più di chi ha ampia esperienza politica e vedono nella divisione un male. L’elettorato religioso più giovane vede in Bennett un leader che condivide appieno i loro valori e un’alternativa a un Likud che sta perdendo secondo alcuni l’animo nazionale. Infine, i più oltranzisti, che si sono affidati a piccoli partiti che non hanno passato la soglia di sbarramento, potrebbero questa volta confluire nelle liste del partito ortodosso Shas (che vuole rappresentare gli ebrei sefarditi e orientali) considerando alienante l’aspetto laicizzante del nuovo partito di Bennett. Questi gruppi non sono poi interessati al governo e non hanno una chiara agenda politica o economica, quanto invece hanno una chiara visione sociale che sono interessati ad avanzare.
Intanto l’ex Capo di Stato Maggiore Benny Gantz, che l’intera Israele continua ad amare per aver riformato l’esercito dopo la crisi della Seconda Guerra in Libano nel 2006, potrebbe fare la differenza. Gantz ha fondato il partito Hosen Le-Yisrael (forza, energia per Israele), che tende a destra su questioni di sicurezza, a sinistra su questioni sociali, e liberista in economia. Ma con chi potrebbe allearsi? La sua figura potrebbe essere apprezzata dal vecchio Likud, laico e liberale, sicuramente dal Centro e anche dalla sinistra (secondo il sondaggio di Walla, la sinistra avrebbe 26 mandati dovesse Gantz candidarsi con loro). Spesso però l’ego domina e acceca: Gantz metterebbe ombra a molti politici che ancora cercano di consolidare il proprio nome e la sua figura è talmente apprezzata dal pubblico che è visto come potenziale alleato e grande pericolo. Alcune figure pubbliche, della magistratura e dell’Avvocatura di Stato, si sono dimesse per unirsi a Gantz in un’impresa che in molti vedono come un futuro pericolo. Lo sbaglio di molti potrebbe essere proprio il linguaggio che attacca Gantz, la cui carriera militare e i modi pacati lo rendono vicino agli storici leader israeliani, che associavano sicurezza, visione sociale e pragmatismo – un’Israele che in molti rimpiangono e che Gantz richiama.
La sinistra si è divisa. Il 1 gennaio 2019, in una conferenza stampa, il leader dell’opposizione Avi Gabbay, a capo dei laburisti, ha annunciato la scissione dal fronte di sinistra “il Campo Sionista”. La leader di Tnu’a (Movimento) Tzipi Livni guardava esterrefatta le telecamere quando Gabbay alludeva alla mancanza di lealtà alla leadership e di amicizia, gli ingredienti per una partnership di successo. “Il pubblico non è stupido, capisce che c’è un problema nella partnership e si è allontanato da noi”. Dopo queste affermazioni, se n’è andato dalla sala, lasciando Tzipi Livni di stucco. Un’alleanza con Gantz potrebbe riportare il Labour agli splendori del passato, ma una simile partnership non avrebbe larghe intese sulle questioni di sicurezza e politica estera.
La Lista Araba Comune è anche in crisi. La parlamentare Hanin Zo’abi, conosciuta per le sue prodezze retoriche anti-israeliane e le sue continue provocazioni, ha annunciato che lascerà la vita politica, dopo una carriera da prima donna araba alla Knesset costruita sul più polemico e feroce anti-sionismo. Costituta nel 2015 come unione di tre partiti dalle anime diverse, uno pan-arabista e socialista (Balad), uno nazionalista secolarista (Ta’al) e un altro islamista (La Lista Araba Unita – Ra’am), la Lista Araba Comune si posizionata come terza forza politica in Israele, con enormi difficoltà di lavoro perché l’unico comune punto tra le sue anime è l’antisionismo. Il principale problema è quello che è considerato il boicottaggio delle elezioni, cioè il basso sostegno alla Lista Araba che registrano i sondaggi interni. Alcuni sostengono che sia dovuto alla mera presenza araba alla Knesset che “legittimerebbe il razzismo israeliano” (su questa linea discute Diana Buto sul sito a-Shabaka).
In realtà si può leggere il basso sostegno anche in altra maniera: il pubblico arabo non è diverso da qualsiasi altro bacino elettorale. Per anni hanno detto agli arabi israeliani che tutti i loro problemi hanno un’unica ragione, cioè l’esistenza di Israele. Ma con gli anni si sono accorti in molti che i partiti arabi combattevano alla Knesset una battaglia ideologica che sempre più si allontanava dai bisogni della popolazione e delle minoranze arabe (come mezzi di trasporto, rappresentanza, accesso alle risorse ecc.). La partecipazione alla vita politica locale ha portato a molti risultati, così come il processo di integrazione (voluto peraltro dai governi di destra e dalle forza di sicurezza), e il basso sostegno è forse segno di una diversa volontà pubblica, che porterà a un cambiamento. I cittadini arabi pretendono di più dai loro rappresentanti, e la loro leadership è anche in crisi.
Ayman Odeh sostiene che la Lista sarà unita anche per le prossime elezioni e la sua visione politica forse aiuterà a rinnovare l’agenda del partito. Odeh adotta la stessa retorica anti-israeliana e anti-sionista, con una pratica politica di cooperazione e compromesso: ha negoziato il finanziamento delle autorità locali arabe per il miglioramento delle infrastrutture, ha contribuito all’aumento dell’istruzione laica nel settore arabo. Partecipa alle cerimonie in ricordo della Shoah e non la strumentalizza per farne paragoni moderni, ma non ha partecipato ai funerali di Peres, andando però al funerale del giornalista giordano cristiano Nahed Hattar ucciso nel settembre 2017 per aver condiviso una caricatura considerata offensiva dell’Islam.
Ciò che si sente spesso dire per le strade è che “Bibi non mi esalta, ma non ci sono alternative”. Per ora è considerato il più esperto politico e ogni cambiamento politico in Israele è complicato perché non è solo una questione di politica economica e sociale, ma anche di sicurezza ed per molti elettori è questo che detta la scelta finale, non apprezzando di conseguenza il cambiamento se non per qualcuno che ha fatto carriera militare (e per ora sarebbe solo Gantz).
Meir Dagan, ex capo del Mossad, in un discorso nel 2015 in occasione della manifestazione “Vogliamo Cambiare”, ha espresso il timore per la leadership, per le divisioni, per la mancanza di visione del futuro. Il suo discorso in parte rivolto contro Netanyahu, che come aveva detto allora “porterebbe Israele verso uno Stato bi-nazionale” in nome della sua guerra per rimanere al potere, aveva anche messaggi generali, validi forse per qualsiasi altro Stato, anche per l’Italia: “non cedete al populismo, non fatevi incantare da un carisma vuoto”. Ancora tre mesi alle elezioni, e i sondaggi indicheranno se le parole di Dagan sono state ascoltate.