Non solo le primarie democratiche. Anche per i repubblicani si avvicina il processo elettorale per la conquista della nomination. E, con il 2020 sempre più alle porte, nel Grand Old Party iniziano a circolare degli interrogativi. Ammesso e (ancora) non concesso che abbia intenzione di ricandidarsi, Donald Trump – in quanto presidente al termine di un primo mandato – dovrebbe teoricamente ottenere l’investitura dal proprio partito. Eppure, nonostante questa sia la prassi, non si tratta di un automatismo. Nulla vieta infatti che alcuni “colleghi” repubblicani possano decidere di scendere in campo per contestargli la nomination. Del resto, i precedenti storici non mancano. Nel 1976, Ronald Reagan si candidò contro il presidente uscente Gerald Ford, contrapponendosi alla sua politica economica e – soprattutto – alle sue idee in termini di strategia internazionale. Nel 1980, fu invece il senatore Ted Kennedy che, in campo democratico, sfidò l’allora presidente Jimmy Carter per la conquista della nomination.
Insomma, di scontato non c’è nulla. Anzi, vista la fibrillazione che caratterizza ormai da tempo l’elefantino, appare abbastanza improbabile che il processo interno delle primarie possa svolgersi linearmente e senza intoppi. Nonostante il discreto risultato ottenuto alle ultime elezioni di metà mandato, non sono pochi i malumori che serpeggiano dalle parti dell’establishment repubblicano. I recenti attriti tra Trump e il neo senatore dello Utah, Mitt Romney, testimoniano d’altronde una situazione relativamente tesa. Ecco che dunque, approfittando di tutto questo, qualcuno potrebbe cercare di capitalizzare il sostegno della fronda anti-trumpista per cercare di contendere al magnate la nomination.
Per il momento, nessuno si è fatto ufficialmente avanti. Ciononostante ci sono dei segnali da tenere in considerazione. Innanzitutto, bisogna guardare all’ex ambasciatrice americana alle Nazioni Unite, Nikki Haley. Lo scorso autunno, ha annunciato le dimissioni da questo ruolo e – pur adducendo motivazioni di carattere personale – numerosi commentatori hanno letto questa sua scelta come un atto di ostilità nei confronti di Trump. Nonostante le dichiarazioni di facciata, non è un mistero del resto che i due non siano mai andati granché d’accordo. L’ex governatrice del South Carolina non ha infatti mai nascosto la sua simpatia per gli ambienti legati al neoconservatorismo, proponendo – per questo – una politica estera battagliera e interventista, nonché decisamente ostile verso i tradizionali nemici dello Zio Sam. Una linea dura, che il magnate non ha mai condiviso troppo. E, non a caso, Nikki Haley ha spesso espresso il suo disappunto per la strategia di distensione, portata avanti da Trump, tanto verso la Russia quanto verso la Corea del Nord. Inoltre, non bisogna dimenticare che l’ex governatrice nutra da tempo ambizioni di carattere presidenziale: non soltanto, nel 2016, sostenne un duro avversario di Trump, come il senatore della Florida Marco Rubio, ma fu anche da quest’ultimo scelta come candidata alla vicepresidenza. Ecco perché, nonostante lei attualmente neghi di voler correre per la Casa Bianca, qualche repubblicano anti-trumpista spererebbe in una sua prossima discesa in campo.
Ma Nikki Haley non è l’unica papabile. Da qualche giorno, è iniziato a circolare insistentemente il nome del governatore del Maryland, Larry Hogan: ultimamente ha criticato a più riprese Trump, ha intensificato i contatti con la fronda repubblicana e – soprattutto – starebbe organizzando un viaggio in Iowa per marzo. Insomma, un atteggiamento elettoralmente bellicoso, per quanto il diretto interessato abbia smentito una sua candidatura. In tutto questo, non bisogna infine dimenticare alcuni candidati sconfitti alle primarie del 2016: a partire dall’ambiziosissimo Marco Rubio.
Il punto sarà capire se, in caso Trump si ritrovi la nomination contesa, i suoi eventuali rivali abbiano reali possibilità di successo. Al momento, Nikki Haley sarebbe certamente il nome più quotato: è una donna energica, con esperienze amministrative e di politica internazionale. E’ inoltre molto presente sui social, senza poi trascurare le sue origini indiane (che potrebbero accattivarle le simpatie delle minoranze etniche). Ciò detto, va anche tuttavia sottolineato un elemento importante. Non è esattamente chiaro quanto le sue idee neocon in materia di esteri possano realmente attrarre il sostegno di un elettorato – quello americano – ormai su posizioni sempre più isolazioniste. Un discorso che vale anche per lo stesso Rubio, che ha sempre fatto dell’interventismo bellico uno dei suoi principali cavalli di battaglia. Hogan rappresenta invece un caso a sé: per quanto si tratti di una figura abbastanza popolare, va infatti evidenziato che si tratti di un repubblicano piuttosto atipico. Non tanto perché è un critico dell’attuale presidente. Ma soprattutto perché sposa tutta una serie di posizioni liberal che difficilmente potranno essere digerite dalla parte più tradizionale dell’elettorato repubblicano. Quella parte che – per intenderci – risulta sempre decisiva in sede di elezioni primarie.
Insomma, il rischio per l’establishment repubblicano è di commettere gli stessi errori del 2016: avviare una campagna di opposizione e di sgambetti che finisca col determinare un solo (paradossale) esito: portare acqua al mulino di Trump.