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Le ragioni di una “grande riforma fiscale” evocata da Visco

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Il recente intervento di Ignazio Visco (purtroppo) a braccio, presso la Scuola di Sant’Anna, in occasione della presentazione del suo libro – “Anni difficili” – merita più di una riflessione. Non tanto sul tema del “reddito di cittadinanza”. Chi può essere contrario ad una misura che vuole aiutare chi è rimasto indietro? Il problema è avere un meccanismo efficiente che non sostituisca la carità pelosa alla forza emancipatrice del lavoro. No: l’aspetto più interessante, almeno a nostro avviso, è stata la sua presa di posizione netta a favore di una grande riforma fiscale. Che è cosa completamente diversa dei piccoli aggiustamenti che si sono susseguiti da tempo immemorabile. E che solo negli ultimi anni hanno assunto il volto degli 80 euro. Motivati come riduzione del carico fiscale a vantaggio di un segmento di lavoratori. Ma dall’Eurostat considerati, come un semplice sussidio. Tanto da costringere i tecnici del Tesoro ad una sorta di doppia contabilità: la pressione fiscale secondo l’Italia, al netto degli sgravi concessi. E quella degli Organismi europei che, di questi sconti, non hanno voluto sentir ragione.

Ma qual è la riforma fiscale necessaria? Visco cita Cosciani e Visentini, che nel periodo 1964 -1973 gettarono le basi di un sistema, rimasto immutato nei suoi fondamentali. Certo: da allora il carico burocratico, in tema di imposte, è aumentato enormemente. Creando una giungla che ha fatto felici i fiscalisti e dannato i contribuenti. Ma l’impianto è rimasto quello di allora. Mentre nel frattempo il mondo e, quindi, l’economia di ciascun Paese cambiava a ritmo impressionante. Scompariva l’illusione del socialismo realizzato, le cui suggestioni avevano ispirato economisti del calibro di Maurice Dobb e lastricato la via del “politicamente corretto”. Gli Stati Uniti assumevano il controllo solitario dell’intero Pianeta. La Cina, mandato al macero il libretto delle guardie rosse con l’effige di Mao, scopriva la via del capitalismo di Stato. Mentre il disegno dell’unità europea non riusciva a trovare quel comune denominatore che avrebbe potuto consentire a ciascun Paese di uscire dal guscio della propria tradizione, per tentare di costruire qualcosa di diverso.

Sorprende ancora oggi l’atteggiamento tenuto dalla sinistra italiana. Se agli inizi del terzo millennio avesse accettato la sfida lanciata da Giulio Tremonti – le due sole aliquote dell’Irpef – forse oggi l’Italia sarebbe risultata diversa. Certamente più dinamica. Meno contratta sul piano burocratico. Più aperta all’innovazione ed allo sviluppo. Non si trattava, ovviamente, di prendere quelle proposte per oro colato. Si trattava di aprirsi ad un confronto, abbandonando la teoria che “le tasse sono bellissime”. Cosa non vera. Le tasse, da che mondo e mondo, sono state sempre elemento di oppressione, al punto da legittimare nel tempo la nascita di quelle forme di democrazia che, oggi, taluno vorrebbe archiviare per sostituirla con un semplice algoritmo informatico. No taxation without representation: era il grido che accompagnò, nella metà del ‘700, la rivolta dei coloni britannici nel Nuovo mondo. Dando luogo alla nascita degli Stati Uniti d’America.

Ma c’è di più. La constituency della sinistra era soprattutto costituita dal popolo dei tartassati. Quei lavoratori dipendenti, dominati dal “sostituto d’imposta”: il prelievo alla fonte da parte delle imprese trasformate in gabellieri di Stato. Mentre, al di fuori di quei confini, dilagava l’evasione e l’elusione. La sinistra non doveva solo condannare quei comportamenti devianti. Cosa giusta e necessaria. Doveva soprattutto cambiare le regole del sistema impositivo. Riconoscendo che le imposte erano un male necessario. Ma comunque un male. Prevalsero, invece, i limiti di una falsa coscienza. Quell’approccio ideologico – questo sostanzialmente il fondamento teorico del “politicamente corretto” – che gli impedì di riflettere sui buoni propositi della Reagan economy. Abbassare le aliquote per togliere l’alibi all’evasione – una prova di resistenza contro lo Stato oppressore – e rilanciare lo sviluppo.

Si poteva fare? O non era l’eccesso di debito pubblico a scoraggiare ogni iniziativa? Cosciani e Visentini non erano solo fiscalisti. Avevano una visione dello sviluppo allora possibile. L’Italia marciava a vele spiegate verso il fordismo. La grande impresa sembrava indicare la via del futuro. Le altre attività – il piccolo commercio, le professioni rivolte al pubblico e via dicendo – sembravano essere elementi residuali di una crescita della società che tendeva ad aggregarsi, aumentando la dimensione aziendale. Bastava quindi concentrale il prelievo fiscale su quei soggetti, per ottenere le risorse necessarie per un welfare, che era segno di una grande civiltà.

Lo schema era condiviso dalle stesse forze d’opposizione. Bisogna andare a rileggere gli atti di un famoso convegno dell’Istituto Gramsci – “Tendenze del capitalismo italiano” – per averne contezza. Specie nella relazione di Bruno Trentin. Fu quella l’elaborazione teorica su cui si fondarono le lotte operaie dell’autunno caldo. La descrizione di un mondo che si riteneva immutabile e che, invece, è stato spazzato via dall’avvento della globalizzazione e dal màglio del processo tecnologico. Fenomeni che hanno cambiato in radice i paradigmi non solo della politica economica, ma dello stesso modo d’essere delle società contemporanee.

Quando si parla della necessità di una “riforma fiscale ampia”, come sostiene Ignazio Visco, che non si limiti a “piccoli aggiustamenti”, bisogna partire da qui. Dai mutamenti intervenuti negli equilibri di fondo nelle strutture produttive delle economie avanzate. Da quella “società liquida” di cui parla Zygmunt Bauman: segnata dal tramonto della grande impresa, come struttura prevalente della formazione economica e sociale (Marx, sempre più soppiantata dal labirinto delle attività minute, delle professioni legate all’erogazioni di servizi, delle piccole e piccolissime aziende. Nuovi soggetti fiscali che il “sostituto d’imposta” non riesce più a catturare.

Si può tentare di individuarli ricorrendo ad un apparato legislativo sempre più complesso e farraginoso, com’è avvenuto finora. Imporre strumenti stravaganti come il “redditometro”. Ma è una battaglia persa in partenza. Come mostrano i dati sulla persistenza del fenomeno dell’evasione e dell’elusione. Forse la via maestra da seguire è diversa. Puntare ad una riduzione del numero e del peso delle aliquote delle imposte dirette e valorizzare il “contrasto d’interesse”. Consentire, in altre parole, come avviene negli Usa, il discarico pieno delle fatture di spesa, specie in quei settori dove è più evidente il peso dell’evasione. Si tratta, in altre parole, di utilizzare il contrasto tra produttore, sia di servizi che di beni, ed il consumatore per ripartire in modo più equo il carico fiscale non più su una sola parte, ma sull’intera collettività. Puntando sull’interesse immediato dei singoli.

Imboccata questa strada, la via della semplificazione diventa conseguente. Le imposte indirette, a partire dall’Iva (dove si annida gran parte dell’evasione) possono essere graduate diversamente. Quelle sui capital gain o le rendite finanziarie ricondotte alla logica unitaria dell’imposta personale, non più gravata da aliquote d’esproprio. C’è, come si vede, molto da fare. Il problema sono le condizioni politiche. Con Matteo Renzi sembrava che la sinistra italiana avesse superato i suoi antichi tabù. Speriamo solo che non si sia trattato di un fuoco fatuo, destinato nuovamente a spegnersi nei nuovi confusi equilibri di quel partito.

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