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In rotta di collisione. Il futuro della Siria fra Russia e Iran

politica

La semina è terminata, ed è costata sangue e denaro. Russia e Iran hanno pagato un prezzo economico e umano molto alto per sedersi al tavolo dei vincitori della guerra che per otto anni ha martoriato la Siria. Ora che gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro dell’esercito e le ultime risacche dello Stato islamico non costituiscono più una diretta minaccia al regime di Bashar al Assad, è giunto il tempo della raccolta. Al di là dell’inevitabile allineamento diplomatico in chiave anti-americana, le premesse per una rotta di collisione fra Mosca e Teheran sul futuro assetto siriano ci sono tutte. Tanti i dossier divisivi, a cominciare dal destino di Assad. Mosca, dicono gli esperti, spinge per un governo (formalmente) auto-sufficiente e per un parziale disimpegno. Dopotutto, i due obiettivi dichiarati dell’impegno russo, salvaguardare il regime di Assad e stabilire basi militari che offrano al governo un prezioso sbocco sul Mediterraneo, sono già stati raggiunti. La ricostruzione economica del Paese, che alcuni studi stimano in quasi 200 miliardi di dollari, può essere occasione ghiotta per le imprese made in Russia, ma è fardello troppo pesante di cui farsi carico da soli.

L’Iran sembra preferire invece un governo debole e più facilmente controllabile a Damasco. Teheran vanta un maggior numero di pedine sul campo e forse anche una maggiore presa su una parte del Paese, il Sud-Ovest, dove i pasdaran assieme a Hezbollah hanno costruito nuove enclavi sciite e conquistato il favore della popolazione promettendo case a chi non ha più un tetto. Il governo di Hassan Rohani deve tuttavia fare i conti a un compatto fronte di opposizione interna che non vuole più sentir parlare di costose e incomprensibili avventure all’estero pagate dalla gente comune con l’aumento del carovita. “Entrambi i Paesi hanno speso un’enorme quantità di denaro per tenere in vita il regime di Assad e ora vogliono controllare il governo di Damasco per far fruttare l’investimento” spiega ai microfoni di Formiche.net Gumer Isaev, già direttore del Centro di studi contemporanei sul Medio Oriente dell’Università di San Pietroburgo, ospite a Roma di un panel all’Egic (Euro-Gulf Information Centre). “In questa fase non mancheranno tensioni fra le parti – dice l’esperto che viene da sei mesi a Damasco – non aiuta la disgregazione fra vari gruppi. In Iran ci sono molte persone contrarie alle costose avventure militari all’estero, la Guardia Rivoluzionaria ha un’opinione sulla Siria, l’esercito un’altra e il ministero degli Affari Esteri un’altra ancora”. La Russia è in cerca di una via d’uscita, dice Isaev: “Per la Russia il Medio Oriente è un fronte secondario rispetto ai rapporti con l’Occidente e ne costituisce il riflesso. Quando nel 2014 le relazioni fra Mosca, Stati Uniti e alleati sono deteriorati a causa della crisi ucraina la Russia ha aumentato la sua attività in Siria, ma prima dell’annessione alla Crimea il supporto di Putin ad Assad, che all’epoca sembrava avesse il destino segnato, non era così aperto, lo stesso discorso si può fare con i rapporti che intercorrevano con Gheddafi e Saddam”.

Oggi i russi considerano prioritario il fronte apertosi nell’Europa dell’Est, con la Nato e l’Unione Europea che bussano alle porte dell’Ucraina e una polveriera pronta ad esplodere sulle coste della Crimea. Il disimpegno in Siria è presupposto necessario per dedicare al confine europeo risorse adeguate, ma prima di allentare la presa su Damasco serve una exit strategy che passa obbligatoriamente da un accordo di spartizione di influenza con il regime iraniano e, in seconda battuta, con la Turchia di Erdogan nel Nord del Paese. E qui nascono i guai. Anzitutto perché il ritiro statunitense lascia un vuoto di influenza nella Rojava che dovrà essere spartito fra iraniani, turchi e russi, a tutto danno dei curdi (“Meglio Assad dei turchi”, ha detto una delle leader dei curdi che hanno combattuto l’Isis a Nord in un’intervista a Bloomberg).

Poi c’è il dossier israeliano. Tel Aviv è in queste settimane impegnata in un aperto conflitto con le forze iraniane in Siria, bombardando le basi intorno a Damasco. Il governo di Teheran rinfaccia a Mosca di non aver ancora reso operativi i sistemi anti-missili S-300 inviati al governo siriano e ha chiesto ai russi di prendere una posizione forte contro gli israeliani, ricevendo in cambio flebili frasi di condanna dei bombardamenti. “Putin non vuole abbandonare il dialogo con Israele. Così si spiegano i numerosissimi incontri bilaterali con Bibi Nethanyahu in questi ultimi due anni, anche all’indomani dell’abbattimento dell’aereo militare lo scorso ottobre di cui i russi accusano gli israeliani” spiega Isaev. Le divergenze sulla questione israeliana sono un ostacolo in più, forse il più ingombrante, per la buona riuscita di una “conferenza di Jalta” fra Russia e Iran in Siria. Trovare la quadra non sarà facile, sospira l’esperto di San Pietroburgo: “Rimangono troppi punti interrogativi sul dopoguerra siriano e sul processo di stabilizzazione del Paese. Esattamente come all’indomani della II Guerra Mondiale le potenze vincitrici concordarono il nuovo assetto europeo, così ora Russia e Iran devono trovare un compromesso che, per il momento, esiste solo sulla carta”.

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