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Mueller alza i toni sul Russiagate. Cosa significa per Trump l’arresto di Stone

Roger Jason Stone Jr è uno dei più famosi consulenti del Partito Repubblicano, protagonista storico di tante campagne elettorali, compreso l’ultima, quella che ha lanciato il suo amico newyorkese Donald Trump. Stone è un uomo influente — o forse da ieri è meglio dire “era” – istrione, eclettico e macchinatore potente. Ieri pomeriggio era davanti a una corte federale della Florida a difendersi da accuse pesantissime avanzate contro di lui nell’ambito dell’inchiesta Russiagate.

Poche ore prima, all’alba, un team tattico dell’Fbi — casualmente accompagnato da una troupe televisiva della Cnn — aveva fatto irruzione nella sua villa di Fort Lauderdale. Il segno dei tempi: quel giardino, un tempo logistica per business politici di alto livello tra Jaguar e Martini, è stato il set di un arresto stile El Chapo. Gli agenti del Bureau coi mitra alzati sono penetrati urlando “Fbi! Open the door”. Da film: d’altronde non mancavano le telecamere per lasciare quella scena nell’archivio della storia politica del paese.

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Perché è lì che finirà, e poca importa se poi la giudice Laurana Snow ha deciso per la scarcerazione con 250mila dollari di cauzione — mentre il suo accusato dichiarava che non avrebbe mai testimoniato contro il presidente; “un mio vecchio amico” l’ha chiamato parlando col circo mediatico che lo aspettava davanti al tribunale a cui sembrava dettare il suo epitaffio. Trump e Stone sono amici da decenni: negli anni Ottanta cercò di farlo candidare quando ancora il primo era un semplice imprenditore immobiliare di successo, poi la corsa quasi giocosa del 2000, infine il 2015.

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Lancio della candidatura in giugno, in agosto Stone lasciò formalmente Trump. Il rapporto tra i due s’è congelato adesso, al punto che Trump lo scorso in un’intervista al New Yorker l’ha definito uno che “cerca sempre di prendersi il merito di cose che non ha mai fatto”. Il presidente doveva gestire la situazione: Stone era già molto chiacchierato in ambito Russiagate, e l’anno prima (2017) era uscito su Netflix “Get Me Roger Stone“, un documentario su di lui in cui Trump descriveva il loro rapporto speciale quarantennale. “Adora questo gioco”, la politica, “ed è molto bravo”, dice Trump nel documentario.

La pirotecnica persona di Stone (uno che si presentò all’Inaugaration di Trump vestito come un dandy vittoriano) è tutta in un’immagine: ieri, uscito dal tribunale, ha salutato i giornalisti con le braccia alte facendo il segno della V per vittoria, marchio di fabbrica, citazione del gesto con cui Richard Nixon nel 1974 salutò i presenti quando salì per l’ultima volta sul Marine One dopo le storiche quanto uniche dimissioni. Era stato Nixon, il presidente del Watergate, a lanciare la carriera politica di Stone, che nutre per lui un riconoscimento infinito, un ricordo indelebile – ha il suo volto tatuato in mezzo alle spalle per ricordarsi “che quando la vita ci butta giù, dobbiamo rialzarci per rimetterci in gioco: un uomo non è finito quando è sconfitto, è finito quando smette”.

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La fedeltà al presidente attuale è un concetto già espresso da Stone — l’ultima volta a dicembre, durante un’intervista a “The Nation” della ABC. E che gli era già valso il plauso del presidente Trump: i procuratori che indagano il Russiagate accusano Stone di aver fatto da tramite tra gli hacker russi che rubarono documenti privati ai democratici nell’estate del 2016 e WikiLeaks che li ha resi pubblici.

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Il presidente, come Stone, dice che l’accusa è falsa, utile solo ad alimentare il clima da caccia alle streghe contro la sua Casa Bianca: in almeno un paio di occasioni ha ringraziato Stone nonostante il raffreddamento dei rapporti. Trump a dicembre dello scorso anno disse che c’è ancora qualcuno che “ha coraggio” a proposito del silenzio di Stone — ed è chiaro il riferimento all’altro ex vecchio amico di Trump, l’avvocato Michael Cohen che invece sta collaborando col magistrato speciale che conduce l’indagine.

Lo special counsel si chiama Robert Mueller, è incaricato dal dipartimento di Giustizia, e ha poteri praticamente infiniti, al punto di permettersi di far arrestare da una squadra Swat dell’Fbi un consulente politico come Stone, famoso per essere il faccendiere di solito incaricato di gestire i dossier più spinosi, un “dirty trickster” lo chiamano i media americani. E qui, c’è una sottolineatura: Mueller è un artista dell’understatement, perché ha scelto la spettacolarizzazione dell’arresto?

A dicembre scorso, Stone – un uomo di cui è difficile capire dove finisce il personaggio e inizia la persona – si appellò anche al Quinto Emendamento (la facoltà di non rispondere) davanti a una convocazione del Senate Judiciary Committee. Ora la corte del District of Columbia che lo ha fatto arrestare gli imputa — per richiesta di Mueller — sette capi d’accusa, tra cui falsa testimonianza e ostruzione alla giustizia. Ma il punto centrale, come ha spiegato subito in televisione il capo della Cia di era obamiana, è capire se tra lui e i russi (e WikiLeaks) ci sia stata solo collusione o invece s’è trattato di una cospirazione per far vincere Trump.

L’accusa di Mueller dice che Stone ha mentito su alcune conversazioni che avrebbe avuto con alti funzionari della campagna Trump — non sappiamo chi, ma una fonte alla Bloomberg ha fatto il nome dello stratega Steve Bannon, capo del team elettorale — proprio a proposito dell’hacking. La parola “Russia” è scritta solo una volta nell’atto, quando si dice che i documenti sottratti ai democratici di cui Stone parlava con gli uomini di Trump erano frutto di un hacking russo compiuto da “attori governativi”.

Stone, aristocratico delle teorie del complotto (si vanta di credere a molte delle teorie cospirative più diffuse, ma non è chiaro quanto in modo convinto), sapeva tutto in anticipo. A giugno, o massimo i primi di luglio, del 2016 avrebbe avvisato gli uomini di Trump di cosa sarebbe successo; WikiLeaks avrebbe reso pubblici quei dati rubati dopo l’hacking, che avvenne il 22 luglio 2016. Cosa non banale e forse il punto chiave della vicenda: la pubblicazione di quei documenti, che sostanzialmente non contenevano niente di eclatante, fece da base a una devastante quantità di storie false, complotti e leggendarie cospirazioni inventate, sui democratici, che penalizzarono molto Hillary Clinton, anche perché la diffusione di quelle fake news fu spinta da bot e troll russi che facevano parte del piano di interferenza nelle presidenziali per cui l’intelligence americana ha già incolpato il Cremlino.

L’accusa dice che Stone mantenne contatti col team Trump — dagli scambi di mail sembrerebbe che chi teneva i contatti con Stone del team era molto ansioso di informarsi sugli altri passaggi — anche dopo la prima pubblicazione da parte dell’organizzazione di Julian Assange. Una volta, scrisse anche su Twitter di aver parlato con Assange e di sapere che altri documenti sarebbero stati pubblicati.

E intanto si scambiava mail con altre persone, tutte indicate anonimamente nell’atto di accusa pubblico, ma di cui ci sono indizi. Tra queste, per esempio, uno dovrebbe essere il capo della redazione politica di Breitbart, il sito di Bannon, Matthew Boyle, secondo informazioni già ottenute dal New York Times. E poi un “commentatore politico” (così viene indicato): è Jerome Corsi, il suo avvocato ha già confermato. A novembre dello scorso anno Mueller lo ha individuato, interrogato e ha ottenuto le mail scambiate tra lui e Stone sull’hacking e WikiLeaks (Corsi sta trattando con il team di Mueller, vuole un patteggiamento, collaborerà).

Stone si scriveva anche con un “supporter” di Trump, un “conduttore radiofonico”, che secondo altre vecchie info (di novembre 2018, ottenute dalla NBC) potrebbe essere il comico politico Randy Credico: “Ho parlato col mio amico a Londra — Assange è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana nella capitale inglese perché la Svezia lo vuole arrestare sotto accusa di violenza sessuale — continueranno il loro gioco”, scriveva Stone. Credico intervistò Assange il 25 agosto 2016. A ottobre di quell’anno, WikiLeaks pubblicò email rubate dai russi a John Podesta, capo del team Hillary 2016, che sotto quella dinamica storie-inventate/diffusione-virale furono terribili per lui e per Clinton (una di queste è nota come Pizzagate).

Su tutta questa roba Stone è accusato di aver anche mentito alle Commissioni congressuali che seguono il Russiagate e di aver provato a corrompere testimoni (in una delle mail avrebbe chiesto il silenzio scrivendo al suo interlocutore, probabile fosse Credico, “qualunque cosa per salvare il piano”, molto nixoniano). La faccenda è grossa, soprattutto se inserita nel clima politico attuale – l’iperpolarizzazione tra Dem e Rep.

Non è chiaro cosa comporterà per il presidente Trump l’evoluzione del filone dell’inchiesta che coinvolge Stone, ma ieri la speaker della Camera, la leader democratica Nancy Pelosi, ne ha dato un assaggio feroce in un comunicato: l’arresto di Stone “chiarisce che c’è stato un tentativo deliberato e coordinato da parte dei funzionari della campagna Trump di influenzare le elezioni del 2016 e sovvertire la volontà del popolo americano […] È stupefacente che il Presidente abbia scelto di circondarsi di persone che hanno violato l’integrità della nostra democrazia e mentito all’FBI e al Congresso a riguardo”. Ora, dice Pelosi, Trump dovrà spiegarci “la sua relazione con Vladimir Putin“. Oggi la speaker ha continuato su Twitter, in un raro attacco diretto al Prez: “Gli sforzi di Donald Trump per ostacolare l’indagine del procuratore speciale Mueller [sui contatti fra la Russia e Trump] sollevano alcune domande. Cos’ha Putin sul conto di Trump? È qualcosa di politico, personale o finanziario?”.

(Foto: immagine tratta dal documentario Netflix “Get me Roger Stone”)

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