All’Europa (e all’Italia) sfugge un tema: la Cina considera la questione della riunificazione di Taiwan una faccenda centrale nella propria politica estera e interna e gli americani altrettanto. Solo che l’amministrazione Trump esce dal solco delle precedenti anche su questo, e sembra interessata a giocare un ruolo di pressione verso Pechino. Washington, che avallava la politica della One China — quella della riunificazione della provincia insulare considerata ribelle dal Partito comunista cinese, su cui Bruxelles ha da poco rinfrescato la propria posizione favorevole — ora è intenzionata a usare anche i diritti di Formosa come carta del gran confronto globale con la Cina.
“Pechino dovrebbe fermare la sua coercizione e riprendere il dialogo con l’amministrazione democraticamente eletta su Taiwan”, ha dichiarato su Twitter Garret Marquis, portavoce del consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, che è il più alto in grado tra i collaboratori della Casa Bianca con deleghe per gestire faccende spinose (anche su livelli politici) di carattere internazionale — ossia, quel che dice Marquis può essere considerato per transitività emanazione del presidente Donald Trump (per dare il senso del peso diplomatico della dichiarazione). “Gli Stati Uniti rifiutano la minaccia o l’uso della forza per costringere il popolo di Taiwan. Qualsiasi risoluzione deve essere pacifica e basata sulla volontà della gente da entrambe le parti”, dice Marquis.
Nei giorni scorsi, il presidente cinese, Xi Jinping, ha tenuto un discorso rivolto a Taiwan in cui ha ricordato che la riunificazione è un suo obiettivo, su cui non tollererà ingerenze esterne, e per cui, se fosse necessario, l’uso della forza non è da escludere. Xi non ha relazioni dirette con la presidente taiwanese Tsai Ing-wen, ma ha riavviato i rapporti col suo predecessore nel 2015: ora dice che la scusa delle differenze nel sistema di governo non è una giustificazione per non riunire i due paesi (la Cina è una dittatura di partito, Taiwan una democrazia presidenziale elettiva autogovernata, senza mai una dichiarazione di indipendenza), e su questo Pechino ha tarato l’offerta di riunificazione. Ma se Taipei vuole chiudere i contatti, ha minacciato il leader cinese, la Cina lo farà, a rischio e pericolo dell’isola.
Xi ha offerto a Taiwan un sistema simile a quello di Hong Kong (la formula si chiama “yiguo liangzhi”, un paese, due sistemi), ma con le continue denunce contro le pressioni cinesi che arrivano dalle associazioni dei diritti che vedono le proprie libertà in erosione, i taiwanesi che per oltre l’80 per cento non vogliono finire sotto la Cina, e nuove presidenziali in arrivo, Tsai ha rapidamente rifiutato l’offerta (l’85 per cento dei taiwanesi è favorevole al mantenimento dello “status quo nel senso più ampio del termine” dicono sondaggi recenti; il 70 è soddisfatto di come la presidente sta gestendo la pratica con Pechino). La non aderenza alla One China è una questione identitaria per la presidenza progressista di Tsai, che poche ore prima del discorso di Xi rivolgeva il suo buon anno ai propri cittadini dicendo che era arrivato il momento che la Cina accettasse il percorso di “democrazia e indipendenza” della Repubblica di Cina a Taiwan.
Nei piani di Pechino c’è una data, il 2050, anno successivo al centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese e della fuga/rifugio dei nazionalisti di Chiang Kai-shek sconfitti da Mao nella guerra civile. L’isola — che dista 180 chilometri dalle coste cinesi — è da sempre considerata strategica per Pechino. La Cina la vede come un avamposto di protezione verso il nodo geopolitico marittimo del Mar Cinese. Il cuneo Formosa-Hainan darebbe una profondità ancora maggiore tra quelle rotte nevralgiche, che permetterebbe maggiore assertività alle rivendicazioni territoriali nella zona, per questo Pechino non può tollerare che finisca fuori dal proprio controllo.
Da tempo la Cina ha elaborato un sistema per sfiancare Taiwan: aumento della dipendenza economica intensificando gli scambi a cavallo dello stretto (Pechino è di fatto il primo, irrinunciabile partner commerciale di Taipei); propaganda etnico-nazionalistica sulle radici comuni; interferenze per indebolire la politica estera taiwanese; minacce armate e dimostrazione di forza. L’aspetto militare è il più debole, perché il conflitto potrebbe provocare perdite e danni (un costo per la Cina, anche dovesse superare la resistenza taiwanese, in termini di ricostruzione), ma anche provocare la reazione di altri attori (per primi gli Stati Uniti, piuttosto coinvolti nel dossier) e indebolire l’immagine internazionale cinese.
(Foto: Wikicommons)