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Il Muro e la crisi umanitaria. La strategia di Trump al confine Sud

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Da ieri lo shutdown è diventato il più lungo della storia statunitense; l’altro ieri circa ottocentomila impiegati pubblici non hanno ricevuto il loro primo stipendio per via della chiusura degli uffici federali che dura da 23 giorni; il blocco, secondo le stime del governo, pesa per circa un miliardo di dollari a settimana sull’economia americana. E il presidente Donald Trump è infuriato contro i giornali perché scrivono che lui non ha una strategia per risolvere la situazione. Tuona su Twitter contro quello che chiama “Amazon Washington Post” — Trump sfrutta spesso questa linea di attacco, perché Jeff Bezos di Amazon è proprietario anche del WaPo. Dice che un articolo informato pubblicato dal giornale — in cui si descrive la situazione alla Casa Bianca come “caotica” e senza una strategia di uscita se non quella di aumentare il caos attraverso una battaglia politica — è pieno di “fake news”.

Il punto è sempre quello: il Muro. La Casa Bianca non ha ormai più modo di rinunciare a combattere con i Democratici per l’infrastruttura di divisione col Messico, avendoci investito un’enormità di capitale politico. Ci sono elettori repubblicani e trumpiani che lo credono realmente necessario, bombardati anche da una propaganda continua dei media outlet più vicini alla presidenza: rinunciare alla lotta per ottenerlo diventerebbe complicato, anche perché verrebbe sintetizzata come una vittoria dei nemici politici. I Dem, altrettanto, non intendono cedere e vogliono capitalizzare subito col braccio di ferro la fiducia investita su di loro alle Midterms dagli elettori del partito e dai NeverTrump. Forti della maggioranza alla Camera, s’oppongono a ogni proposta di legge di bilancio che contenga anche un solo dollaro per il Muro.

Il presidente è alle strette, però ha (forse soltanto) la carta dell’emergenza nazionale da utilizzare, e vedersi così sbloccati fondi extra da poter dirottare sull’opera. Ma per ora dice di non volerla utilizzare. Rallentare su è una strategia: Trump e il suo staff sanno che sarebbe complicato gestirne il fall-out, anche in termini legali, e per ora preparano soltanto le carte. Lo stato d’emergenza lungo il confine Sud non c’è (e i dati della Homeland Security dicono che il flusso di migranti che passano il confine messicano è in una fase di calo rispetto allo storico). Però il martellamento propagandistico è già al lavoro per spianare la strada a decisioni che non è detto non arrivino in futuro — mentre lo staff legale della Casa Bianca starebbe studiando i cavilli. L’altro ieri, tornando dalle aree meridionali del Texas, là dove dovrebbe venir su il Muro, il presidente ha detto che è in atto “una crisi umanitaria”, “una situazione molto peggiore di quello che si percepisce”, “un’invasione”, “la barriera d’acciaio, The Wall, doveva essere costruita prima, dalle amministrazioni precedenti”, perché “senza il nostro paese è in pericolo”.

Seguendo la linea, ha poi rivendicato i passi avanti fatti dalla sua presidenza: continuando su Twitter ha detto che sono sempre fake news le cose scritte dai media quando commentano che comunque in questi due anni del Muro ne è stato fatto nulla — i media non sbagliano, Trump ha avuto pochi finanziamenti finora per poter portare avanti il progetto tra i simboli della sua campagna elettorale, e anche per questo spinge forte adesso, nell’anno che lo lancerà verso la corsa per il secondo mandato nel 2020. Il quadro temporale spiega ancora perché non può smettere di lottare per quei 5,7 miliardi chiesti sul budget del 2019 (attenzione: le stime dicono da anni che per tutti i tremila chilometri di barriera, di dollari ne servirebbero più o meno venticinque, e dunque staremmo solo a un quinto del necessario: ma averli significa vincere il confronto politico). Il presidente per avallare la sua retorica ha condiviso quella che sembra essere una slide di una presentazione interna in cui c’e la foto di una “sezione tipo” del Muro, barre d’acciaio di 9 metri che definisce “alte, resistenti e bellissime”. A quanto pare dalle immagini sono le stesse che non hanno superato il test anti-intrusione di cui la Nbc ha pubblicato alcune immagini: possono essere segate in meno di trenta minuti, che è il tempo di reazione rapida previsto per l’intervento dei Border Patrol contro chi vuole entrare (i quali una volta segate le barre, muro o meno, potrebbero essere negli Stati Uniti: d’altronde ampi tratti di confine hanno già installate strutture di protezione, che però negli anni non sono riuscite a bloccare le rotte clandestine).

Sabato Trump ha invitato i Democratici alla Casa Bianca a discutere la strada da prendere per sbloccare lo shutdown e “la crisi umanitaria al confine Sud” (di nuovo) — l’ultima riunione, qualche giorno fa, è finita in 15 minuti e senza il presidente, che si era alzato dal tavolo delle discussioni dopo che la controparte Dem aveva chiarito di non essere intenzionata a trattare sul Muro. Sempre sabato, in altri due tweet ha utilizzato le parole “crisi umanitaria”, che negli ultimi due giorni sono diventate la scelta lessicale con cui spingere il progetto del Muro.

“Ho vinto”, ha scritto Trump nello spazio preferito per raggiungere i suoi fan, “dovete capirlo”, e “ho promesso sicurezza […] parte delle mie promesse è la costruzione di un muro al confine Sud”. Il lessico dei tweet non è mai casuale: lo stato d’emergenza viaggia di fianco a un’altra opzione. Trump potrebbe usare i fondi dello Us Army Corps of Engineers, ossia i soldi stanziati ai genieri per la ricostruzione in Puerto Rico e California: sono tredici miliardi, che l’amministrazione ha già detto di non voler toccare, ma nella lotta politica servono certe evocazioni per dipingere quel che succede sul bordo meridionale come un disastro ambientale simile a un uragano o a incendi endemici, “una crisi umanitaria”.

 

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