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Perché Trump darà altri quattro mesi ai suoi militari in Siria

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Secondo le informazioni confermate al New York Times da “alcuni funzionari dell’amministrazione”, il Presidente americano Donald Trump intende concedere altri quattro mesi di completa operatività alle sue truppe dispiegate in Siria, prima del ritiro annunciato qualche giorno fa. E forse questi 120 giorni non saranno gli ultimi, perché è possibile anche un impegno di lungo termine. Era noto che era in corso una campagna per farlo rallentare, visto che a questo punto sembra complicata una completa inversione di rotta, che quindi potrebbe aver funzionato.

Le voci sul nuovo ordine seguono quel “stiamo lentamente riportando a casa le nostre truppe”, dichiarazione fatta ieri su Twitter dal Prez, invertendo il senso di quanto detto da Trump stesso una dozzina di giorni fa, quando annunciava il ritiro immediato e completo (tempo: 30 giorni massimo). Ci sarebbero due linee dietro alla revisione: la necessità tecnica richiesta più volte dai pianificatori militari per rientrare dalla Siria (servono almeno quattro mesi per smobilitare); cercare di uscire con una qualche strategia che possa far valere il peso americano sul futuro del paese (è una richiesta israeliana, che ha molto a che fare con la necessità di limitare il ruolo dell’Iran, e potrebbe essere approfondita nei prossimi giorni, quando il consigliere per la Sicurezza americana, John Bolton, sarà in Turchia e Israele: Bolton aveva parlato chiaramente qualche mese fa di questa necessità strategica).

Militari, congressisti, paesi stranieri alleati, hanno da subito cercato di spiegare al Presidente che stava sbagliando, ma l’uscita dalla Siria — dove circa duemila specialisti americani stanno combattendo lo Stato islamico e controbilanciano la presenza russa e iraniana — è una promessa elettorale, che fa parte del costrutto dottrinale bannoniano, base del pensiero di Trump: secondo questa visione, la stabilizzazione di certe situazioni non è funzionale alla sicurezza nazionale, perché si considerano queste missioni costose, lontane e poco utili, quando la priorità è invece proteggere i confini.

Basta andare indietro soltanto di due giorni per osservare un pattern articolato attorno alla Casa Bianca, in cui ricercare i motivi di questo rallentamento. Ieri sera è circolata sui social la lettera di farewell, addio, del capo del Pentagono, Jim Mattis, che lascia da oggi il suo ufficio proprio in polemica con la decisione di Trump sulla Siria (e una simile sull’Afghanistan) – “Mantenete la fede nel nostro Paese e tenete duro, insieme ai nostri alleati, in linea con i nostri nemici” ha scritto al personale della Difesa. Sempre ieri diversi generali-politici hanno espresso più o meno apertamente il proprio dissenso (e tra questi ci sono anche il capo dello Stato maggiore congiunto uscente, Joseph Dunford, l’ex comandante del Jsoc, Stanley McChrystal, e l’ex capo delle staff della Casa Bianca, il generale dei Marines in congedo John Kelly). Il senatore repubblicano neo-trumpiano Lindsey Graham ha avuto un pranzo di lavoro alla Casa Bianca due giorni fa, durante il quale ha cercato (è stato lui stesso a raccontarlo ai giornalisti domenica) di persuadere il Presidente e magari farlo tornare sui suoi passi – un’operazione che, dice il congressman, sta funzionando perché si è entrati “in pausa”, ossia c’è margine di manovra per rivedere il ritiro.

Ieri Trump è sbottato su Twitter: quando sono arrivato la Siria era “un casino” in mano all’Isis, ora l’Isis è “per lo più andato”, e sto riportando per questo i nostri soldati a casa, chiunque altro al mio posto sarebbe stato accolto come “un eroe nazionale”, ha detto. Il presidente si lamentava delle critiche ricevute, mentre però faceva filtrare una revisione della sua volontà (quello “slowly“, lentamente, inserito nel tweet citato sopra non era l’avverbio utilizzato finora nelle riunioni allo Studio Ovale per descrivere il ritiro siriano). L’ultimo capo della Cia di epoca non trumpiana, John Brennan, ha retwittato il messaggio con un commento durissimo: “Spero sinceramente che l’imminente esposizione della tua corruzione possa convincere abbastanza Repubblicani ad abbandonarti nel 2019. Ne abbiamo avuto abbastanza del tuo lamento dalla Casa Bianca. Abbiamo bisogno di un vero leader: il futuro della nostra nazione è in gioco”.

Andiamo indietro al 26 dicembre, adesso: pare che Trump abbia avuto modo di percepire dai diretti interessati quanto fosse rischioso uscire dalla Siria dato che lo Stato islamico non era affatto sconfitto come lui dichiarava. Volato in Iraq per portare gli auguri di Natale alle truppe – la prima di questo genere di classiche visite presidenziali in due anni di Casa Bianca – Trump aveva parlato con i comandanti operativi che gestiscono dall’Iraq la missione contro Abu Bakr al Baghdadi e la sua organizzazione. Tutti, secondo le indiscrezioni che adesso circolano sui media americani, gli avevano sconsigliato di lasciare il suolo siriano, dove le forze speciali americani hanno acquisito capacità di intelligence eccezionali che hanno garantito l’efficienza operativa vista finora contro l’IS. Alla fine, scrive il Nyt, Trump avrebbe anticipato il rallentamento sul ritiro al generale Paul J. LaCamera, a cui è affidato il comando delle forze americane in Iraq e in Siria, proprio durante la visita di Santo Stefano.

Non bastasse questo per far ricredere il Presidente, ci sono altre news dal campo. Nei giorni scorsi, i tre Paesi del formato Astana – la capitale kazaka dove si sono tenute parte delle riunioni del processo negoziale per la Siria alternativo a quello dell’Onu e guidato da Mosca, che coinvolge Russia, Iran e Turchia –si sono riuniti e hanno cercato di trovare una quadra per il nord siriano, che è il territorio che risentirebbe di più del vuoto statunitense. Là si trovano i curdi siriani, in una fascia confinante con la Turchia e strappata negli ultimi tre anni e mezzo dall’occupazione baghdadista. Ankara minaccia un attacco contro di loro, che considera nemici perché alleati del Pkk; i curdi, senza la protezione americana, aveva cercato rifugio invitando il governo siriano a un accordo.

Tutto si snodava attorno alla città di Manbij: dalla riunione turco-russo-iraniana (e siriana) è uscito che Ankara per il momento bloccherà l’invasione militare (che avrebbe guidato, usando ribelli siriani sunniti sponsorizzati); mentre le truppe del governo siriano (un mix da equilibrismo di milizie sciite mobilitate dall’Iran, Pasdaran e poche unità di Damasco, coperte dal cielo dai russi) non sono entrate a Manbij – anche se hanno occupato la diga Tishreen, poco fuori alla città.

Intanto, da domenica sono iniziati i bombardamenti iracheni in Siria: il rais Bashar el Assad ha autorizzato l’aviazione di Baghdad a colpire lo Stato islamico sul proprio territorio, e questa decisione è frutto di un allineamento veicolato dal punto di vista politico dall’Iran (e in parte minore dalla Russia), secondo quella sorta di internazionale sciita teorizzata dagli ayatollah di Teheran – gli uomini delle milizie sciite irachene sono coloro che hanno contribuito in modo più importante, insieme ai libanesi di Hezbollah, a tenere in vita l’esercito siriano e il regime. La decisione, dice un comunicato iracheno zeppo di propaganda, è stata presa alla luce del ritiro americano.

Ora si attende che la tempistica citata dal Nyt diventi ufficiale e definitiva per vedere come i delicatissimi equilibri attorno alla guerra civile globale siriana cambieranno di nuovo.



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