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Siria, cosa suggerisce a Trump l’attentato a Manbij

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Il columnist del Washington Post Max Boot probabilmente centra il punto: “[…] nel processo di ritiro, (Donald Trump) lascia i soldati statunitensi, che sono incaricati di portare a termine la sua politica incoerente, fatalmente esposti”. L’articolo è un commento duro dopo l’attentato in cui ieri, in una piccola città del nord siriano (Manbij), sono morti due soldati delle forze speciali americane, un civile del Pentagono e un contractor statunitense. Lo Stato islamico ha rivendicato l’azione, che nelle cronache al di fuori dagli Stati Uniti è passata un po’ sotto traccia ma è assolutamente fuori dall’ordinario: la Siria non è l’Iraq di un dozzina di anni fa, i soldati americani non finiscono quotidianamente sotto l’attacco dei jihadisti. Finora – in quattro anni di operazioni contro il Califfato – ne sono morti soltanto due in battaglia. Ossia, l’attentato di ieri ha triplicato lo storico delle perdite in una sola volta.

Di più: secondo una decisione del presidente Trump, i soldati americani anti-Is sarebbero dovuti uscire dalla Siria sabato, fra due giorni, ossia un mese dopo l’annuncio iniziale fatto il 19 dicembre. Il ritiro ha creato caos nell’amministrazione e tra gli alleati, e il presidente ha preso via via una posizione più sfumata, ma allo stesso caotica. L’attacco di ieri è la risposta dello Stato islamico: questo del caos è il nostro regno. Quel 19 dicembre, Trump diceva che il Califfato era stato sconfitto, ora ha cambiato versione e precisa che ha perso la dimensione statuale (quella che lo ha reso il gruppo jihadista più forte della storia), ma resta un gruppo di miliziani combattenti in grado di compiere azioni terroristiche.

Come ieri, quando l’organizzazione califfale ha armato di una cintura esplosiva un guerrigliero e lo ha inviato a Manbij, in un punto preciso. La città è stata liberata un paio di anni fa dall’occupazione dell’Is, ed è diventata un centro logistico in cui gli americani si sentono relativamente sicuri di muoversi e coordinarsi con i loro alleati – le forze curdo-arabe che hanno sconfitto l’Is al nord della Siria. Sicuri al punto di potersi fermare a mangiare in un ristorante: i baghdadisti sapevano esattamente quale locale colpire, e l’attentatore che hanno inviato s’è fatto esplodere al momento che gli statunitensi sono scesi dal loro Suv.

Di questa doppia dimensione dello Stato islamico si parla da almeno un anno e mezzo: gli analisti hanno riempito fascicoli con valutazioni, scenari e previsioni. Tutti più o meno simili, perché l’Is ha precedenti: ai tempi della Guerra d’Iraq, quando si chiamava solo Aqi (Al Qaeda in Iraq), ha resistito con resilienza, nascosto e strisciante, al Sunni Awakening e al Surge – ossia all’aumento delle truppe e all’operazione politico-diplomatica che i generali illuminati americani avevano fatto per allontanare i sunniti iracheni dalle derive estremistiche. Poi, è riesploso, sfruttando una situazione non troppo diversa dall’attuale: Barack Obama era ansioso di ritirare il contingente dall’Iraq, lasciando però il paese in mano a governo sciita piuttosto settario.

Il populismo ideologizzato con la fede dei predicatori sunniti ha trovato spazio tra una maggioranza vessata da una minoranza violenta, che nel 2014 a Falluja accompagnò festosa i blindati americani rubati con cui i jihadisti entravano in città.

Ora in Iraq c’è un governo che subisce il fascino delle milizie sciite movimentate dall’Iran per salvare le regioni occidentali del paese occupate dal contro-surge califfale tra il 2014 e il 2015; e in Siria le cose non vanno certo meglio. Il rais Bashar el Assad s’è salvato la vita durante la rivoluzione e ora si appresta a ri-governare il paese sotto la stessa influenza iraniana – Damasco ha un debito di sangue con Teheran, senza l’aiuto degli iraniani Assad avrebbe perso la guerra civile. L’Is – che aveva sfruttato il caos della guerra civile per sfondare oltre confine dall’Iraq – c’è, comunque. Resta in sacche di controllo ormai molto limitate, e soprattutto striscia come una malavita che aspetta il momento buono per ripresentarsi in pompa.

E gli analisti non hanno ragioni per no delineare i rischi collegati a qualcosa di già visto, stante la condizione attuale. Davanti a questo, quello che dice Boot diventa drammatico: l’uscita dalla Siria del contingente americano non sembra essere accompagnata da una strategia generale, e pare di rivedere quando l’istinto di consenso della presidenza Obama portò via i soldati dall’Iraq. Risultato finale di quella non-strategia fu l’Is.

È chiaro che gli Stati Uniti non vogliono la guerra, i cittadini da molti anni ne soffrono il costo in termini di spesa e soprattutto di vite umane. Trump, come Obama, spinge su un maggiore coinvolgimento degli alleati in certi dossier, cercando un disingaggio. Il paese è stato ferito più volte, e la politica deve sopravvivere. Ieri, a poche ore dall’attentato di Manbij, il vicepresidente Mike Pence sembrava essere atterrato direttamente da un altro pianeta quando davanti a 180 ambasciatori riuniti al dipartimento di Stato continuava a insistere “Isis has been defeated“, li abbiamo sconfitti. Ma è quella la necessità.

Contemporaneamente a Pence, al Congresso parlava Lindsey Graham, che è un senatore repubblicano di vecchia data con posizioni differenti da quelle del presidente, ma che Trump tende ad ascoltare per l’esperienza che ha nelle faccende di politica estera. Graham ricordava che in quel ristorante fatto esplodere ieri da un kamikaze dell’Is lui c’era stato a luglio scorso, quando visitò le truppe americane e le milizie curdo-arabe (che stanno di fatto prendendo a calci il Califfo, ma hanno ancora il complicato lavoro di stabilizzazione davanti). “Spero che il presidente si convinca a restare in Siria”, ha detto Graham, che aveva reagito d’istinto definindo il ritiro dalla Siria una decisione “Obama-like” e il 30 dicembre scorso era a pranzo alla Casa Bianca per guidare l’offensiva di chi chiede al presidente più tempo, per abbinare il ritiro a una strategia generale in grado di dare garanzie sul futuro (e non solo sul campo del counter-terrorism, perché i dubbi riguardano anche equilibri di forza con attori rivali come l’Iran).

Ieri il sito specialistico Defense One ha messo insieme alcune dichiarazioni fatte mercoledì in un discorso pubblico dal capo dello staff dello US Army, il generale Mark Milley, che è il primo ufficiale di alto livello a parlare pubblicamente della ritirata: “Siamo determinati a terminare il tutto e quindi consegnare la battaglia ai nostri partner indigeni”. Milley ha spiegato che l’obiettivo è adesso sconfiggere l’IS sul terreno, e che il combattimento è concentrato su un ristretta area geografica, poi ha aggiunto che l’attuale confusione e mancanza di coordinamento era “in realtà normale”.

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