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Equivoci, giri di valzer e scambi epistolari sull’autonomia

La speranza è che il sipario si chiuda al più presto sulla commedia degli equivoci. Come nella migliore tradizione di Plauto, Goldoni e Shakespeare, anche la questione dell’autonomia pare aver messo in scena il tema del doppio o, peggio ancora, dell’identità perduta.

Il ministro super-grillino Toninelli ormai bolla come “chiacchiere da bar” le accuse leghiste di fare ostruzionismo. Zaia scrive lettere aperte via Facebook “all’eroica gente del Sud” per rassicurarla, “l’autonomia non è contro di voi”, minaccia un giorno sì e l’altro pure la caduta del governo se la partita non si chiude e intanto chiude in un cassetto la questione degli schei, il trattenimento dei 9/10 del gettito fiscale, cavallo di battaglia ormai caduto nell’oblio.

Anche Fontana dimentica volentieri qualcosa: i 22 milioni di euro spesi da Maroni per i 24mila tablet-voting machine del 22 ottobre 2017. Bocche cucite da Cgil, Cisl e Uil pronte a scendere in piazza il 9 febbraio per protestare contro il governo a quattro giorni di distanza dal fatidico 15 febbraio (Mille e non più Mille dell’autonomia), a patto però di non farne menzione.

Il leader di Confindustria Boccia frena sulle materie dell’energie e delle infrastrutture mentre il veneto Zoppas abbraccia l’autonomia a 360 gradi. Bonaccini scrive appelli congiunti con Zaia e Fontana all’indirizzo del premier Conte. Martina e Zingaretti, impegnati nell’eterno agone interno, si guardano bene dall’apparire troppo regionalisti. Ma il capolavoro di equilibrismo è quello tentato dai pentastellati, che accettano di sottoscrivere l’autonomia nel contratto di governo, salvo poi contorcersi sui giornali per i maldipancia. È il caso di Paola Nugnes, Saverio De Bonis, Sabrina Ricciardi e Bianca Laura Granato: eletti col M5s a Palazzo Madama, i primi due in contenzioso col collegio dei probiviri a cinque stelle per aver votato contro il decreto sicurezza, e tutti e quattro capaci di far tremare la risicata maggioranza della Camera Alta.

E al Sud tutti compatti contro la secessione dei ricchi? Difficile mettere la mano sul fuoco. Nonostante il fronte appaia compatto, si tenga conto, ad esempio dell’ex governatore Caldoro, di cui diremo meglio tra poco. E se oggi tace il pugliese Emiliano, fervente autonomista della prima ora, si osservi la manovra a tenaglia del governatore campano De Luca e dell’interprete accademico Gianfranco Viesti, docente di economia dell’Università di Bari: “No alla secessione dei ricchi” è la petizione lanciata su Change.org e il titolo del pamphlet, edito da Laterza, democraticamente accessibile a tutti in line. Quanto ai ministri del Sud, acrobatico giro di valzer anche per Giulia Grillo (Salute, Catania), Sergio Costa (Ambiente, Napoli) Alfonso Bonafede (Giustizia, Mazara del Vallo), si ravvedono Lezzi e Di Maio, ormai di granitica fede autonomista, e anche il Mit, che ha già abiurato, annuncia in pompa magna “grandi passi avanti” nei negoziati con Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna.

Nel via vai dei personaggi che si rincorrono sulla scena, impossibile notare come anche la forma narrativa si acconci alla sensibilità dei tempi (o forse al tecnicismo del materia). Affinché non si prendano lucciole per lanterne (o per parlare a nuora perché suocera intenda), prende piede lo scambio epistolare a mezzo stampa. Dunque la ministra per gli Affari regionali Stefani, sulla cui scrivania si trovano i tre faldoni dei dossier regionali, scrive al direttore di Repubblica Calabresi per chiarire le idee ai detrattori dell’autonomia, il sindaco Sala si rivolge a sua volta a Calabresi per parlare fuor di metafora ai leghisti di casa sua (ma gli risponde anche Zaia dal Veneto, “Meglio il centralismo statale?”).

De Luca scrive a Conte, appellandosi all’’unità nazionale, ai valori solidaristici, redistributivi e sociali marchiati a fuoco in Costituzione. E anche Stefano Caldoro, appunto, impugna carta e penna. Lo fa addirittura a cavallo del Capodanno, perché la sua lettera a Il Mattino appare il 2 gennaio, con l’annuncio (tempestivo per il calendario ma fuori tempo massimo per l’iter già avviato?) di una raccolta di firme per un referendum consultivo degli articoli 116 e 117 della Costituzione.

Non confida nei giornali, invece, la Calabria, che alla lettera preferisce la ceralacca: con diffida protocollata, la Regione mette in guardia ufficialmente il governo dal trasferire ulteriori poteri alle regioni più ricche prima di una “definizione dei livelli essenziali delle prestazioni”. Insomma, è allarme autonomia o la grande occasione del Paese? Una bomba ad orologeria o il momento per vincere la sfida della razionalizzazione e dell’efficientamento della spesa pubblica?

La ministra Stefani rassicura, è l’inizio di un percorso che ha come obiettivo la definizione di costi standard e fabbisogni standard. Una volta posizionata l’asticella della spesa storica (cioè quanto lo Stato spende per la competenza da trasferire), toccherà alla Regione dimostrare di saper fare meglio, erogare lo stesso servizio spendendo meno. Tutto a saldo zero. Poi verranno stabiliti i costi standard per le venti regioni, da applicare nell’arco dei cinque anni, definiti da una commissione paritetica stato-regioni.

Non una media matematica, perché saranno presi in considerazione i Lep, i livelli essenziali delle prestazioni (gli spalaneve di Lovigno non sono quelli di La Spezia), già previsti in Costituzione. Intanto l’assessore lombardo all’Autonomia e alla Cultura Stefano Bruno Galli si affretta a disinnescare l’ultima mina, quella delle risorse: “non viene tolto un euro al residuo fiscale”, una questione politica “che resta fuori dalla trattativa”. Che stia davvero calando il sipario?

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