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Sardegna, il verdetto di D’Alimonte: il centrodestra è pronto per governare

Salvini, centrodestra

Uno sconfitto: i Cinque Stelle. Un centrodestra con il vento in poppa che, se si votasse oggi, avrebbe la maggioranza assoluta. E un centrosinistra che ha ancora un bacino elettorale, ma ha perso la bussola e dovrebbe valutare l’ipotesi di abbandonare marchi vecchi e un po’appannati. Questo il quadro che emerge dalle elezioni in Sardegna per Roberto D’Alimonte, direttore del Cise (Centro italiano di studi elettorali), professore di Sistema politico italiano alla Luiss.

Professore, qual è il suo bilancio delle elezioni sarde?

I Cinque Stelle ne escono sconfitti, non c’è dubbio. La Lega continua ad attirare voti, soprattutto dal M5S, ma in Sardegna questo fenomeno ha assunto forme diverse a seconda delle zone e dei singoli comuni. D’altra parte l’emorragia di voti dal centrosinistra al Movimento Cinque Stelle si è arrestata con il voto sardo. Il tasso di partecipazione invece è stato piuttosto alto, intorno al 58%. Un dato più alto delle politiche, dove non vengono conteggiati gli elettori sardi all’estero.

Come si spiega la forza del centrodestra sui territori?

Il centrodestra è anzitutto forte a livello nazionale. È questa forza che poi si riflette in buoni risultati alle regionali. Per i Cinque Stelle invece esiste una notevole asimmetria fra le due competizioni.

La Lega è andata bene in Sardegna. Stando ai trend nazionali però il Carroccio è ancora ben lontano dall’autonomia dai Cinque Stelle…

Non è facile fare una stima esatta del risultato della Lega in Sardegna, perché era apparentata al Partito sardo d’azione, che invece alle politiche del 4 marzo 2018 era al suo interno. Mi sembra superfluo valutare questo margine con i Cinque Stelle perché Matteo Salvini ha detto esplicitamente di non voler tornare al voto. Una cosa però è certa: se si andasse a votare oggi il centrodestra avrebbe la maggioranza assoluta dei seggi.

Ha senso dunque usare un’elezione regionale come parametro della salute del governo?

Una competizione regionale è sempre influenzata da fattori nazionali. Risente di problematiche e candidati locali, ma riflette al contempo il trend nazionale. Questo, tutto sommato, è il “problema” con cui fa i conti oggi il centrodestra. Il vento spira in suo favore. L’Abruzzo e ancor di più la Sardegna provano che c’è una tendenza generale verso quell’area politica.

Chi ha fatto la differenza in Sardegna: le liste o i singoli candidati?

I candidati sono stati l’elemento trainante. Sia Solinas che Zedda sono andati piuttosto bene. Le liste invece si sono mostrate molto deboli, quella che ha preso più voti ha ottenuto il 13% dei consensi, c’è stata una grande frammentazione.

Che dire invece della sinistra? Gli exit polls hanno previsto un testa a testa inesistente…

Ho rispetto per chi fa gli exit polls, ma non mi fido di quello strumento e infatti non li commento mai, aspetto sempre le proiezioni.

Il marchio Pd ha perso appeal?

L’immagine del Pd è danneggiata, quel marchio è ormai appannato. Non sorprende: da un anno e mezzo il partito si trova in mezzo al guado e ancora non ha scelto un segretario. Il voto in Sardegna ci dice due cose sui dem. Il Pd è il partito più grande, anche se notevolmente ridimensionato. E, come in Abruzzo, esiste ancora un bacino elettorale di sinistra, minoritario, come d’altronde è sempre stato nella storia d’Italia. Quel che manca è un’offerta politica adeguata.

Le liste civiche permettono di aggirare il problema?

Le liste civiche funzionano a livello locale, ma a livello nazionale è molto più complicato metterle insieme e solitamente non sono efficaci. Perché abbiano successo hanno bisogno di candidati ben riconoscibili con una presa sul territorio, caratteristiche che alle elezioni politiche si ritrovano più facilmente nei grandi partiti.

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