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A 40 anni dalla Rivoluzione, l’eredità di Khomeini e l’Iran oggi

iraniano, Khomeini

40 anni fa erano tutti uniti, liberali, religiosi, comunisti, contro lo Shah e, allora almeno, non in molti pensavano che l’Iran si sarebbe trasformato nel progetto politico islamico più importante e grandioso degli ultimi 3 secoli. Tutti volevano mandare via lo Shah, che con la sua violenza e le sue manie di grandezza, avevano messo in ombra il processo di modernizzazione del Paese. Tutti volevano un nuovo Iran, accomunati dal dolore delle persecuzioni del regime e dall’ebrezza di un cambiamento. il 16 gennaio 1979 lo Shah lascia l’Iran e Khomeini ritornerà due settimane dopo in Iran. In pochi anni, trasformerà l’Iran in un progetto di rivoluzione islamica che ancora oggi tiene saldo il potere sulla base di un’ideologia politica che sintetizza islamismo, pensiero politico platonico, tratti di socialismo, nazionalismo e ambizioni egemoniche regionali.

Dell’Iran si conoscono le immagini delle donne velate, la cui vita di oppressione è stata resa nota dai film di Panahi a fine anni ’90; si conoscono le battaglie degli attivisti per i diritti umani, come Shririn Ebadi; si conoscono i reportage di chi è affascinato dal velo imposto alle donne e considerato come un semplice vezzo; si conoscono le dichiarazioni dei suoi leader e l’aspetto guerresco per i vari conflitti in cui è coinvolto. Si conosce la tradizione dei tappeti e dello zafferano più aromatico e raffinato. Ma com’è l’Iran oggi, a 40 anni dalla rivoluzione? È l’Iran che Khomeini voleva?

C’è un Iran modellato dal regime e un Iran che cresce nella società: a volte si incontrano e a volte si scontrano. Il regime iraniano si è consolidato con un doppio sistema di istituzioni, che assicura il controllo totale agli ayatollah. La tradizionale divisione dei poteri è parte della struttura politica dell’Iran di oggi, ma a parlamento, esecutivo e tribunali si associano istituzioni parallele il cui scopo è garantire il rispetto dei valori islamici così come definiti dal Leader Supremo e da pochi altri giurisprudenti. Il progetto di Khomeini era di rendere l’Iran una società interamente islamica, e nei primi anni il regime ha tentato di cancellare le tracce della cultura persiana pre-islamica.

Un esempio è il tentativo di reprimere le celebrazioni di nowruz, il capodanno persiano che si celebra il primo giorno di primavera secondo la tradizione zoroastriana. Nowruz si celebra in tutto il mondo persiano (Iran, Tajikistan, parte dell’Azerbaijan e dell’Uzbekistan, e Afghanistan) e tra le tradizioni vi è anche i salto del fuoco (elemento centrale nella fede e cultura zoroastriana). Subito dopo la rivoluzione, le guardie della rivoluzione linciavano con catenacci chi celebrava nowruz, ma la popolazione non ha desistito. Qui il regime ha dovuto operare una scelta: o reprimere ancora di più o abbracciare la tradizione e islamizzarla. La seconda opzione si è rivelata il miglior compromesso tra realtà e ideologia: le festività zoroastriane di shab-e yaldā (solstizio d’inverno) e nowruz (equinozio di primavera), che continuano nelle tradizioni di tutto il mondo persiano, sono diventate celebrazioni con una luce islamica, che sottolineano l’importanza della famiglia, della comunità e del bene comune. Chi vuole continuare a saltare il fuoco o a mangiare le ultime angurie prima dell’inizio dell’inverno (quello che si fa a shab-e yaldā) lo può fare liberamente, mentre l’ortodossia ideologica è salva perché si è ammantato di islamismo anche una tradizione pre-islamica.

Un altro esempio di pragmatismo del regime è il cambiamento dopo la rivoluzione fallita del 2009. Le seconde elezioni di Ahmadinejad avevano scatenato una serie di proteste iniziate a giugno del 2009, e represse nel sangue. Di qui è nato il Movimento Verde, di opposizione al regime, che due anni dopo nel 2011 organizza una nuova ondata di proteste, anch’esse represse nel sangue. Alle proteste partecipavano riformisti e studenti, che hanno abbandonato progressivamente la politica ma non la protesta sociale. Alla fine dell’era Ahmadinejad e con le promesse di apertura sociale con il nuovo presidente Rouhani, i giovani studenti e figli della classe media urbanizzata hanno continuato a costruire una vita parallela di libertà, industriandosi per aggirare i limiti imposti dal regime. Così per esempio hanno sviluppato un’applicazione che avverte presenza e spostamenti della polizia morale, hanno aumentato le feste proibite e hanno alzato la voce anti-regime. La risposta è stata più o meno dura: il volto ufficiale del regime, cioè la presidenza del “moderato” Rouhani, ha apparentemente allenato la presa, mentre le istituzioni rivoluzionarie hanno intensificato la repressione con nuove strategia. Per esempio, il regime ha sviluppato un’applicazione di messaggi per iraniani, in modo da controllare anche le teste più calde, che non ha avuto molto successo se non per sviare l’attenzione della polizia; ha represso le voci dei cantanti più pericolose e ha ripreso l’eliminazione dei dissidenti in esilio.

La musica degli iraniani in esilio è diventata uno strumento di sviluppo incontrollato di una cultura iraniana parallela e di opposizione al regime molto temuta. Il cantante Shahin Janafi è dovuto scappare dall’Iran per i suoi testi che criticano il regime e mettono in ridicolo simboli e figure religiose. Le canzoni di Shahin sono piene di rabbia, paura e ironia (per esempio la frase “una terra piena di petrolio, che fanno scorre tutto verso il Libano” in denuncia del sostegno economico a Hezbollah) e riferimenti non graditi alle figure religiose (come la canzone ritenuta blasfema sull’Imam Naqi) che hanno portato alla pronuncia di una fatwa contro il cantante che vive ora in Germania e continua a esibirsi e a sperare in un Iran laico e libero. Il cantante Arash Sobhani, che ha fondato la band Kiosk, dopo che per due volte la domanda di pubblicazione di un disco è stata rigettata da ministro della Cultura e della Guida Islamica, si è trasferito in Nord America. Tra le sue canzoni di critica al regime, “ashq-e sorat” (amore della velocità) ha una frase che richiama le parole di Shahin: “Raschiano il fondo e gli ultimi centesimi li mandano in Palestina”, in critica al sostegno di Hamas. I testi espliciti dal contenuto anche sessuale lo hanno reso inviso al regime, ma la sua lettera del 2016 al presidente Trump in sostegno della linea dura verso il regime iraniano ha attirato le ire di molti esponenti politici che lo hanno accusato di essere un nemico della patria (un’accusa che se perseguita legalmente prevede anche la pena di morte).

In altri casi il regime scende a compromessi con i propri nemici e li usa per i propri fini propagandistici. Il rapper Amir Tataloo dall’aspetto “occidentale”, cioè completamente tatuato e pieno di piercing ha avuto una vita non facile con il regime. Le canzoni dal contenuto sensuale e sessuale sono “corrotte e immorali”, ma il regime ha saputo usare la popolarità di Tataloo: nel 2015 esce il singolo “Energia Atomica”, con un video girato su una nave da guerra iraniana e i cantante completamente coperto in modo da nascondere i tatuaggi. La canzone sostiene il diritto dell’Iran all’energia atomica e un Golfo Persico “armato”. Dopo la canzone Tataloo pubblica dei messaggi sulle reti sociali in favore del regime e delle sue politiche – il che ha fatto diminuire la sua popolarità. Anche se non si sa perché e come si sia prestato alla propaganda del regime, è rimasto un ribelle: nel 2016 ha avuto un nuovo scontro con le autorità, accusato di essere un corruttore delle menti e di promuovere la promiscuità sessuale.

I cambiamenti di Rouhani sono evidenti, e hanno calmato lo scontento delle giovani generazioni per qualche anno. L’inglese è la seconda lingua straniera insegnata nelle scuole (dopo l’arabo); sono aumentate le traduzioni di libri stranieri, compresi libri di autori e storici israeliani (levando ogni riferimento alla loro origine); enormi investimenti in ricerca scientifica, in particolare per risolvere i numerosi problemi energetici e climatici che l’Iran deve affrontare. Ma è forse l’uso del nazionalismo che tenta di nascondere la repressione culturale. Dopo l’era del riformista di Khatami, sono aumentate le restrizioni all’uso della lingua azera, parlata da quasi la metà della popolazione, in favore della “persianizzazione” – anche Khamenei è di origine azera per parte di padre, ma questo non gli impedisce di essere un fervente nazionalista iraniano. Il nazionalismo iraniano si compone anche di un senso di superiorità sugli altri popoli del mondo persiano e sicuramente sul resto del mondo islamico, in particolare quello arabo. Nel 2010, un episodio causato dal leader di Hezbollah Nasrallah riaccende l’odio anti-arabo in Iran: Nasrallah avrebbe detto in un video allora diffuso tra reti sociali iraniane e ripreso di recente che non esiste una civiltà persiana, che sono stati gli arabi a costituire l’Iran, e che il moderno Stato iraniano è essenzialmente islamico quindi deve tutto alla cultura araba. La rivolta è stata unanime: iraniani in diaspora, religiosi e laici. Il sentimento anti-arabo si compone di un senso di superiorità culturale e di risentimento religioso (gli arabi sono in maggioranza sunniti, rivolti dell’Iran sciita) che si esprime oggi anche nel linguaggio giornalistico contro l’Arabia Saudita – famose sono le vignette di Sajad Jafari, che ritrae solitamente America e Israele come nemici dell’Iran, ma ultimamente anche gli arabi (spesso associati a immagini di serpenti) che pieni di soldi finanziano movimenti anti-iraniani.

I cambiamenti non sono però bastati a placare la rabbia di una popolazione che pur distanziata dalla politica, si oppone ora con più forza alla politica economica del regime. I giovani urbanizzati, colti e istruiti, non hanno lavoro. Le giovani coppie che in sfida alle norme sociali e del regime socializzano, flirtano, si amano e si sposano, devono vivere con i genitori perché non possono permettersi di pagare un affitto (nessuna speranza di un mutuo). La polizia morale ha molto lavoro, perché sempre più donne, nelle città almeno, allentano i veli e accorciano i camicioni (manteau) che dovrebbero arrivare alle ginocchia, sempre più ragazzi portano il codino col barbone, piercing, o capelli dritti dritti pieni di gel – inaccettabili segnali di degrado e occidentalizzazione. Le proposte di alcuni clerici di dividere gli studenti e le studentesse nelle università non hanno incontrato sostegno alcuno se non per questioni economiche.

Le proteste del 2018 contro la situazione economica hanno dato un segnale di allarme al regime. Riformisti, laicisti, occidentalisti assieme anche ai commercianti del bazar di Teheran (che hanno messo in chiaro che la loro protesta era solo ed esclusivamente relativa alla situazione economica) sono scesi assieme in piazza. Ma il regime può ancora contare sul sostegno delle élite religiose (che per convinzione ideologica o per interesse vogliono mantenere il proprio status sociale), dei gruppi di piccoli commercianti conservatori urbanizzati, delle famiglie dei militari (in particolare le famiglie dei caduti nella guerra Iran-Iraq e le famiglie dei miliziani volontari) e delle popolazione di periferia – la modernizzazione dello Shah non aveva molto tenuto conto della periferia, cui invece ha pensato la Repubblica Islamica, portando elettricità, acqua corrente, reti fognarie, scuole obbligatorie e sistema sanitario.

I cambiamenti non hanno però addolcito la repressione, come può sembrare dalle immagini delle donne quasi senza velo in alcune strade di Teheran. Chi tira troppo la corda viene duramente punito. I dissidenti che vivono nella paura di essere eliminati dai sicari del regime in Europa lo sanno bene, e così anche i giovani troppo entusiasti del clima di cambiamento, come Maide Hojbari, la giovane ragazza diventata star sulle reti sociali per i video girati in casa sua che la riprendono mentre balla vestita in maniera “troppo occidentale”. In concomitanza con la campagna “mercoledì bianco” iniziata nel 2017, con donne che si facevano riprendere senza velo, iniziata dalla giornalista iraniana-americana Masih Alinejad, la fama digitale della Hojbari era un “pericolo” da reprimere: a giugno 2017 la TV iraniana pubblica un’intervista di una ragazza che pare essere la Hojbari in cui tra le lacrime ammette di pentirsi per l’immodestia e l’esposizione alla corruzione morale. Assieme a lei altre “ragazze di Instagram”, come sono state definite le danzatrici, hanno fatto autodafé nella TV pubblica. La trovata del regime ha però avuto l’effetto opposto a quello sperato: una nuova campagna di diffusione dei video delle ragazze di Instagram e delle immagini di donne senza velo, assieme a video di uomini e coppie che ballano, si è diffusa tra le reti sociali e ha valicato i confini dell’Iran riscuotendo successo anche nel vicino Afghanistan, dove le donne non sono costrette a mettere il velo per legge, ma per le convenzioni sociali.

L’Iran di oggi non è quello che Khomeini ha lasciato: sviluppo tecnologico, scientifico e culturale mettono a dura prova il rigore islamico dei leader, in continua ridefinizione. Le aperture culturali e l’inevitabile “infiltrazione” di elementi esteri hanno portato alla caduta di altri regimi, compreso l’impero sovietico, collassato sotto riforme e rivoluzioni culturali, in cui la musica ha giocato un ruolo fondamentale. Allora, Khomeini aveva scritto a Gorbachov suggerendoli di convertirsi all’Islam per salvarsi e diventare sufi – Khomeini inizia la sua carriera religiosa come sufi e rimarrà legato al mondo mistico per tutta la vita. Che sia un consiglio valido anche per l’Iran di oggi? La politica del Leader Supremo e dei Guardiani sta portando l’Iran all’isolamento internazionale (con l’America per via della politica militare, con l’Europa, forse, per via degli assassini dei dissidenti), al collasso economico, e a una crisi sociale che potrebbe portare all’unione di diverse forze contro l’attuale regime che rende tutti scontenti.

La presidenza di Rouhani, che doveva placare l’opposizione sociale con politiche di apertura, non fa abbastanza per quella fascia di popolazione che non si limita a sognare un Iran diverso, ma lo vive ogni giorno, adottando stili di vita opposti ai dettami del regime, in continua sfida alle diverse restrizioni. Quanti siano questi iraniani non si sa, se siano concentrati solo nelle città e non nella campagna è un’argomentazione di chi vuole limitare l’ottimismo di un imminente cambiamento, ma sono di sicuro una corrente forte che emerge sempre di più e che divamperà forse anche senza bisogno di una rivoluzione.


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