Le elezioni regionali in Abruzzo hanno mandato segnali numerosi e forse più chiari di quanto si prevedesse. Segnali che aprono scenari all’interno delle coalizioni, dei singoli partiti e del governo nazionale. Il centrodestra ha conquistato nettamente la presidenza della Regione con Marco Marsilio, senatore di Fratelli d’Italia, con il 48, 03 per cento quando mancano poche sezioni allo spoglio finale; il centrosinistra ha mostrato segni di ripresa, che meriteranno accurate analisi, grazie a Giovanni Legnini che affiancando numerose liste civiche a quella del Pd ha toccato il 31,28 per cento; il Movimento 5 Stelle ha subìto la più cocente sconfitta degli ultimi anni con il 20,20 per cento, dimezzando i voti raccolti alle politiche di 11 mesi fa (39,8). A seconda degli interessi di parte, per qualcuno si tratta di un voto che anticipa una tendenza nazionale e per altri è un semplice voto locale. Il quarto candidato, Stefano Flajani di CasaPound, si è fermato allo 0,47 per cento, la metà di un anno fa.
IL CENTRODESTRA
La coalizione che presentava Marsilio come governatore, al netto delle polemiche sul fatto che il candidato sia romano nato da genitori abruzzesi e che non abbia mai vissuto nella regione, era la favorita dall’inizio trainata da Matteo Salvini, leader di governo oltre che leader leghista. Il paragone non può che essere fatto con le politiche del 2018 perché le regionali del 2014 appartengono a un’altra epoca: la Lega diventa il primo partito con il 27,5 per cento raddoppiando il 13,8 delle politiche del 2018, Forza Italia si ferma al 9,1 rispetto al 14,4 mentre è significativo il 6,6 di Fratelli d’Italia rispetto al 5 per cento del 2018, un risultato favorito sia dal candidato (senatore e tesoriere del partito di Giorgia Meloni) sia da smottamenti interni con passaggi di candidati da FI e conseguente passaggio di voti.
Salvini, probabilmente, non calcherà la mano e a parole rassicurerà gli alleati del M5S. Il voto abruzzese lo rafforza non solo a livello nazionale, lasciando presagire quello che potrà avvenire in futuro, ma gli consegna il boccino anche all’interno del centrodestra, quella coalizione cui Silvio Berlusconi non può rinunciare (immediati in questo senso i commenti dello stesso Berlusconi e di Maria Stella Gelmini) e che invece sta sempre più stretta a Salvini.
IL MOVIMENTO 5 STELLE
Le dimensioni della sconfitta sono sorprendenti anche per la presenza massiccia in Abruzzo dei leader nazionali, da Luigi Di Maio ad Alessandro Di Battista. Il dimezzamento dei voti non dipende certo dalla candidata Sara Marcozzi, che cerca di giustificarsi ricordando il 21,3 delle precedenti regionali. Anzi, lei ha preso più voti della lista. La verità è che il Movimento per la prima volta si rende conto di quello che ha seminato al governo nazionale: dimezzare i voti nonostante la grancassa del reddito di cittadinanza (non ancora distribuito, ma ormai certo) significa che i cittadini non credono più alla “novità” e, chissà, anche certi toni non sono più graditi. Mancano troppe elezioni per poter trarre delle conclusioni certe, ma il voto abruzzese sembra il primo passo verso il ritorno del Movimento all’opposizione nazionale, da dove è possibile alzare la voce senza assumersi responsabilità.
IL CENTROSINISTRA
Chi dovrà analizzare per bene queste amministrative è il composito mondo del centrosinistra. La candidatura di Giovanni Legnini è stata azzeccata così come la sua scelta di coinvolgere il maggior numero di esponenti della società attraverso le tante liste civiche a sostegno di quella propria e di quella del Pd. Toccare complessivamente oltre il 31 per cento è un successo se paragonato alle ultime sconfitte, anche se il Partito democratico si fermerebbe all’11,2 rispetto al 13,8 dell’anno scorso. L’ulteriore calo del Pd dimostra che la ricetta di Legnini può insegnare qualcosa ai leader nazionali: coinvolgere diverse realtà vicine a quel mondo, ma che per vari motivi non vogliono votare per il Pd. L’anno scorso il centrosinistra toccò il 17,6 e LeU il 2,6: oggi l’insieme delle liste ha ottenuto almeno 10 punti percentuali in più. Un tentativo simile a quello che Carlo Calenda propone per le elezioni europee e sul quale, invece, non mancano i dissidi.
Il 24 febbraio le elezioni regionali in Sardegna saranno un nuovo test. Sarà interessante, nel frattempo, vedere come cambierà il “dialogo” all’interno del governo: il M5S continuerà le prove di forza, dalla Banca d’Italia alla Tav all’autonomia delle regioni del Nord, o proverà a limitare i danni guardando lo sguardo truce di chi indossa un giaccone della Polizia?