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Ad Abu Dhabi le religioni elaborano la fratellanza reale, per salvare il mondo

Come è stato possibile che il papa di una Chiesa da secoli soprattutto occidentale e l’imam più importante di una religione che da secoli si vive in scontro con l’Occidente firmassero una dichiarazione congiunta che cancella l’idea che i musulmani vogliano invadere l’Europa con i barconi della disperazione dopo aver provato con quelli del Sultano e che i cristiani vogliano colonizzare l’Oriente dopo aver decolonizzato i territori che furono ottomani? È stato possibile perché entrambi hanno accettato di riconoscere che la storia dell’altro è stata un cammino umano, con calcoli politici ed erronee interpretazioni religiose, ma l’unico Dio degli uni e degli altri non ha colpe per questa storia. Forse è stata la consapevolezza che la reciproca benevolenza e la lunga convivenza fu messa in crisi nel 1300 dopo Cristo da fattori umani, come l’invasione dei mongoli e i mutamenti climatici, che generando paura e miseria portarono mondi spaventati a cercare espiatori. Accadde allora, accade oggi? Forse, ma posti davanti alla globalità della crisi umana entrambi i leader religiosi hanno dimostrato di sapere che non è più l’epoca delle belle parole, dei caminetti tra i grandi dotti: è invece il tempo, l’ora, dei fatti. Così Papa Francesco e l’imam dell’Università Islamica del Cairo, al-Azhar, hanno scelto di dire che è l’ora dei fatti, e di passare dalla teoria alla pratica. L’azione quotidiana di Bergoglio per l’accoglienza dei profughi ha dimostrato a tanti musulmani che esiste un altro cristianesimo, non quello che hanno visto secoli fa colonizzare le loro terre, o che gli hanno inculcato come “crociato”, ma quello che li accoglie fuggiaschi da terre distrutte, bombardate, desertificate, riconoscendoli come fratelli che chiedono aiuto. E cosa poteva dire l’imam al Tayyeb per mettersi sullo stesso livello? Ha detto: “Cari arabi cristiani, voi siete cittadini di questi nostri Paesi, non siete minoranze! Liberatevi, vi prego, dall’ossessione di essere minoranze! Voi siete nostri concittadini…”.

Dunque con una semplice frase l’imam di al-Azhar ha cancellato secoli di teologia della dhimmitudine, che voleva i cristiani e gli ebrei minoranze protette dal sultano, abitanti di serie b in terra islamica, dove si governa in ossequio alla legge islamica. Ai dhimmi era concesso di praticare la propria religione, soggetti a certe condizioni, e di godere di una certa autonomia. Era loro garantita la sicurezza personale e la certezza della proprietà come corrispettivo del pagamento di un tributo e del riconoscimento della supremazia musulmana. Alcune restrizioni e incapacità legali riguardavano i dhimmi, come ad esempio la proibizione di portare armi, o in alcuni Paesi di andare a cavallo. Tutto questo non ha nulla a che fare con l’Islam delle origini, ma ha a che fare con secoli di storia. Certo, c’è stata la breve parentesi della costituzione ottomana, quel felice biennio poi dimenticato per il corso della storia, ma che nei paesi islamici si governi con la legge islamica lo hanno detto e fatto in tanti. Oggi però la principale autorità sunnita ha  definitivamente e finalmente indicato la priorità di un’altra comunità, distinta e in certo senso superiore alla comunità dei credenti, quella del popolo, cioè degli abitanti di uno spazio geografico che si definiscono popolo, si riconoscono un destino comune, decidono di cooperare a renderlo migliore, e quindi obbediscono a una legge laica, comune. Eccola dunque la parola chiave, “cittadini”, quella parola che è stata al centro di un convegno promosso proprio da al-Azhar nello scorso anno ma che sembrava destinata a rimanere tra le parole che si dicono nelle ovattate sale dei palazzi della fede, non a entrare davanti a capi di Stato e di governo: è la sola che può cambiare l’identità di questi Paesi.

L’imam al-Azhar ha parlato in modo inusuale per un leader musulmano: ha parlato di sé, della sua giovinezza, ricordando le sofferenze patite nella sua Luxor per i bombardamenti occidentali, per le notti senza luce, e poi le altre guerre che da ragazzo hanno tormentato la vita sua e del suo Paese. Sono state causate dalle religioni? No, sono state guerre politiche causate dalla politica, dagli interessi. Ma non si è fermato, è andato avanti, parlando anche degli orrori giunti dopo, il terrorismo. Qui ha detto chiaramente che uomini di fede hanno sbagliato a interpretare, a capire cosa dica e prescriva  “la nostra religione”. Non poteva non soffermarsi  sull’ultimo discorso di Maometto, in cui parla di Gesù e Mosé come di fratelli, né evitare di ricordare ai milioni di musulmani che lo ascoltavano che quando Maometto invitò i suoi discepoli a fuggire, per salvarsi dalle persecuzioni dei politeisti, li invitò ad andare in Etiopia, perché lì c’era un re cristiano, che non gli avrebbe torto un solo capello.

Papa Francesco da parte sua saputo ricordare con schiettezza agli emiratini che aver reso il deserto ricco di grattacieli, di verde, di spazi confortevoli, non basta a sconfiggere le sabbie dello spirito se rimane l’indifferenza per il prossimo, per il fratello: “O costruiremo insieme l’avvenire o non avremo futuro”! Occorre, ha aggiunto Francesco, un disarmo globale, un disarmo vero, profondo, autentico; il disarmo dei cuori. E quindi ha nominato, una per una, le terribili ferite arabe: Yemen, Siria, Iraq, Libia. Non ne ha omessa, da vero amico, neanche una.  E allora? Allora come non collegare queste tragedie a queste parole: “La vera religiosità consiste nell’amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi. La condotta religiosa ha dunque bisogno di essere continuamente purificata dalla ricorrente tentazione di giudicare gli altri nemici e avversari”. Così, ciascun credo “è chiamato a superare il divario tra amici e nemici, per assumere la prospettiva del Cielo, che abbraccia gli uomini senza privilegi e discriminazioni”.

Ma il punto che ha reso epocale questa giornata è la dichiarazione che è stata firmata dall’imam al-Tayyeb e dal vescovo di Roma, papa Francesco, che proprio per ricordare questo suo ruolo di vescovo di Roma ha voluto parlare in italiano, lingua assai meno diffusa dello spagnolo, sua lingua madre. Questa dichiarazione, ha detto l’imam, è nata su un tavolo di casa Santa Marta. In quella stanzetta di una quarantina di metri quadrati lui e il vescovo di Roma hanno scritto un testo nel quale si dice che i musulmani d’Oriente e d’Occidente, insieme con i cattolici d’Oriente e d’Occidente dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via: la collaborazione come unica condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio. Ma non basta; c’è un passaggio inaudito non l’Islam ma per i musulmani passati attraverso lunghi tempi di oscurantismo: dove si parla di pace e riconoscimento non solo dell’altro credente, ma anche del non credente. Qui per la prima volta dopo secoli si attua il principio coranico della non costrizione nella fede, si riconosce il diritto a non credere, quindi – è evidente – anche il diritto a convertirsi, e la necessità di essere governati da una legge civile, laica, non religiosa, è l’unica conseguenza logica.

In poche ore Jorge Mario Bergoglio e Ahmad Tayyeb hanno scritto una pagina di storia che starà agli uomini vivere e rendere viva, ma che non consentirà alle gerarchie arretramenti.

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