L’Unione Europea ha inserito l’Arabia Saudita in una lista di paesi sospettati di aver un ruolo nel riciclaggio di denaro sporco che ha un peso notevole su due direttive che riguardo anche il “terrorism financing“. “Il denaro sporco è il sangue della criminalità organizzata e del terrorismo”, ha spiegato mercoledì in una conferenza stampa la commissaria alla Giustizia Ue, Vera Jourová. “Dobbiamo proteggere il nostro sistema finanziario. Invito i Paesi inseriti nella lista a correggere la loro situazione”, e la mente corre ai sauditi, che hanno messo in piedi un piano per attirare finanziamenti stranieri che richiede massima trasparenza. Oltre Riad nella lista figura l’Iran (con Pakistan, Tunisia, Libia, Nigeria, e i paradisi fiscali come Bahamas e Isole Vergini: in tutto sono 23).
I sauditi hanno già protestato formalmente, dopo aver condotto un lavoro di lobbying tramite Francia, Regno Unito e Germania, perché l’adozione definitiva della lista – che sarà discussa e votata entro un mese – significerebbe che le banche europee dovranno aprire particolari attività di scrutinio per ogni pagamento proveniente dal regno.
Critiche sono arrivate anche dal Tesoro statunitense, che ha definito la lista “imperfetta” annunciando che non ci sarà un seguito negli Stati Uniti per quanto riguarda i sauditi. È una specificazione necessaria, utile all’amministrazione Trump sia per sottolineare la continuità della vicinanza a Riad (con cui ha ristretto i rapporti raffreddati dalla precedente Casa Bianca), che per smarcarsi dal clima severo che a Washington sta avvolgendo il dossier che riguarda il regno.
Nello stesso giorno dell’annuncio sulla decisione della commissaria Ue, la Camera statunitense ha infatti votato una legge per chiedere alla Casa Bianca di interrompere il supporto militare all’Arabia Saudita fornito nella lotta contro i ribelli che hanno destituito il legittimo presidente yemenita. È un’iniziativa che potrebbe trovare sponde al Senato (che nei mesi passati s’era già mosso su questa traiettoria) ed è un elemento molto delicato per la presidenza e per Riad. I deputati hanno invocato il War Powers Act, con cui possono chiedere di bloccare le decisioni del commander in chief, e soprattutto sono andati a lavorare in un punto critico dell’alleanza tra americani e sauditi.
La guerra in Yemen sta diventando imbarazzante per gli alleati di Riad, a causa dei danni collaterali e delle vittime civili. Ma secondo una fonte informata sul dossier, non è stata tanto una mossa di politica internazionale (il riaffermare un ruolo americano nella tutela dei diritti o il cambio di strategie), quanto una necessità che i congressisti hanno sentito nel dover ristabilire un riassetto interno sul chi tratta i rapporti con l’Arabia Saudita. Da quando Donald Trump è stato eletto, infatti, le relazioni tra i due paesi sono state portate avanti in forma quasi unilaterale dall’incaricato della Casa Bianca, il genero-in-chief Jared Kushner, e l’erede al trono Mohammed bin Salman, sfruttando anche l’empatia personale tra i due.
Una situazione che scontenta deputati e senatori, abituati per decenni a trattare con i sauditi, con cui hanno costruito strutture di comunicazione, contatto, relazione, partecipazione. “È un po’ una sorta di richiamo a Trump, ma il voto sullo Yemen non cambierà niente dal punto di vista della dimensione strategica dei rapporti tra i due paesi, ancora di più adesso che l’Iran sta lavorando smaccatamente per diventare potenza egemone in Medio Oriente: una condizione che per gliStati Uniti richiede contenimento, da giocare insieme a Riad”, ci spiega in modo discreto la nostra fonte. “Praticamente è un messaggio alla Casa Bianca, una sorta di richiesta del Congresso che vuole tornare a essere più coinvolto sul dossier Arabia Saudita”.
Qualcosa di simile – ossia legato più a necessità interne che a shift nei rapporti – è successo in Ue. L’Europa s’è trovata dentro alla lista del terrorism financing l’Iran, ossia il nemico giurato dei sauditi con cui Bruxelles ha relazioni, e che sta tutelando nell’ambito del mantenimento in operatività del Jcpoa – acronimo tecnico in inglese dell’accordo raggiunto nel 2015 per il congelamento del programma nucleare iraniano.
Il presidente Trump ha tirato fuori gli Stati Uniti dal deal di cui erano firmatari e ora l’Europa e i tre singoli paesi che hanno fatto parte del sistema che ha chiuso l’intesa con gli iraniani (Francia, Regno Unito e Germania), sono rimasti dentro e cercano di tutelarlo con misure di salvaguardia. È una volontà politica per differenziare l’Ue da certe posizioni distruptive prese da Trump; ed è anche una necessità tecnica per mantenere attivi certi asset commerciali che l’accordo ha riaperto, eliminando le precedenti sanzioni, che con l’uscita americana, e la riattivazione di un regime sanzionatorio durissimo, rischiano di saltare di nuovo.
“A questo punto, inserire l’Arabia Saudita in una black list era una sorta di necessità verso un bilanciamento: non puoi tener dentro l’Iran e fuori Riad. L’Ue ha fatto certe scelte anche per confermare una sorta di coerenza ed equidistanza sull’enorme dossier mediorientale e per difendere il lavorio attorno al Jcpoa”.
“E questo crea incoerenze – ci fa notare la fonte che analizza con noi la situazione – per esempio: come può essere inserita in quella lista l’Arabia Saudita che insieme all’Italia e agli Stati Uniti fa parte del trio di paesi che guidano il Counter ISIL Finance?”. Si tratta del gruppo di lavoro sui finanziamenti dello Stato islamico costruito all’interno della Global Coalition, l’alleanza di 69 paesi che ha distrutto la statualità del Califfato e continuerà l’ingaggio contro la realtà presente e futura dei baghdadisti anche tagliandone i fondi di approvvigionamento.
“Non dimentichiamo che il Qatar, che è notoriamente un finanziatore di gruppi come Hamas, non fa parte della lista Ue, ma d’altronde, per essere maliziosi, ci si potrebbe chiedere: come puoi aver dentro Doha e recepire lo spirito volonteroso con cui il fondo sovrano Qatar Investment Authority inietterà aiuti a Deutsche Bank?”.