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Non solo Canada. Anche l’Australia nel mirino della Cina dopo il caso Huawei

Cresce la tensione diplomatica tra Cina e Occidente e a farne le spese è questa volta l’Australia. Con una mossa a sorpresa – che molti osservatori considerano collegata alla posizione di Canberra che ha chiuso alla presenza del colosso Huawei nello sviluppo della rete 5G nazionale – Pechino ha bandito le esportazioni di carbone termico australiano da cinque dei suoi maggiori porti.

NUOVE RITORSIONI?

Si tratta di un brutto colpo per l’export australiano, che ricorda, seppur con modalità completamente diverse, la reazione cinese nei confronti del Canada dopo l’arresto a dicembre a Vancouver della numero 2 di Huawei Meng Wanzhou (figlia del potente fondatore Zhengfei) che ora rischia l’estradizione negli Stati Uniti e più di 30 anni di carcere.
A seguito del fermo della donna, infatti, era seguita la detenzione arbitraria di diversi canadesi tra i quali un consulente e un diplomatico canadese, Michael Kovrig e Michael Spavor (ribattezzati in patria “i due Michaels”), ma soprattutto la condanna a morte di Robert Lloyd Schellenberg, trentaseienne arrestato nel 2014 con l’accusa di trasportare 222 chili di metanfetamina dalla Cina all’Australia passando per la Thailandia. Lo scorso novembre il Tribunale popolare intermedio di Dailan aveva emesso la condanna a 15 anni. A dicembre il colpo di scena: un’alta corte ha definito la sentenza “troppo indulgente” costringendo il Tribunale nella provincia di Liaoning al riesame. Poi, il 14 gennaio, la notizia del verdetto definitivo: Schellenberg subirà la pena capitale. E benché Pechino abbia smentito qualsiasi collegamento con la vicenda Huawei, è difficile non riscontrare un file rouge fra la rottura con Ottawa e il caso dell’uomo. Non è un caso d’altronde che la vicenda giudiziaria di Schellenberg sia stata opportunamente pubblicizzata dalla stampa cinese solo all’indomani dell’arresto di Meng.

LE TENSIONI CON CANBERRA

Ora quello stesso schema sembra riproporsi nei confronti di Canberra. Un funzionario del porto di Dalian – citato da Reuters – ha rivelato il nuovo limite di 12 milioni di tonnellate di carbone termico fissati al 2019 per i cinque porti amministrati dall’autorità doganale di Dalian. Baynquan, Panjiin, Dandong e Beiliang non potranno ricevere carbone australiano, ma solo russo e indonesiano. Mentre la Cina ha fornito motivazioni legate all’impatto ambientale, l’Australia – che nell’ultimo anno ha esportato carbone in Cina per un valore di oltre un miliardo di euro – ha chiesto al suo ambasciatore a Pechino Jan Adams di avviare un’indagine sulla questione.

IL COMMENTO DI SAPELLI

Il muso duro cinese sul carbone australiano, evidenzia l’economista, storico e saggista Giulio Sapelli, rappresenta senz’altro un problema per l’Australia, in particolare a seguito dei recenti picchi di tassazione sul carbone votate da un parlamento forse eccessivamente attento alla questione ambientale; tuttavia, rileva, è Pechino che ci rimetterà nel breve e medio periodo perché ha bisogno – per scarsità di produzione interna – delle risorse di Canberra. Sapelli sottolinea anche “la rilevanza della questione Huawei, una delle parti più importanti di questo conflitto geo-strategico nonché economico nei confronti del quale l’Australia e l’Occidente non devono retrocedere neanche di un passo. È fondamentale”, commenta “che l’Occidente mantenga inalterato l’interesse a ridurre il potere della Cina, che attualmente non rispetta la proprietà intellettuale dei Paesi con cui collabora e attua pesanti campagne di spionaggio industriale e politico”. La riforma delle forze armate di Pechino, conclude Sapelli, rafforzando la Marina, “ha dimostrato tutta l’aggressività geopolitica cinese soprattutto nei confronti del Mar Cinese Meridionale, una questione estremamente rilevante per Canberra e non solo”.

UN PROBLEMA CRESCENTE

Le tensioni tra i due Paesi non sono qualcosa di nuovo. Da anni Canberra sente aumentare l’ingombrante presenza del vicino cinese con il quale c’è un forte scambio commerciale, e il caso Huawei potrebbe essere solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Che il ban del colosso di Shenzhen sul 5G da parte dell’Australia (membro della alleanza anglofona di intelligence sharing Five Eyes) fosse stato preso poco bene lo dimostrerebbero, secondo alcuni analisti, anche i diversi attacchi informatici che in pochi giorni si sono susseguiti contro istituzioni pubbliche e private australiane, con modalità che hanno condotto a sospettare del coinvolgimento cinese.

I SOSPETTI SU PECHINO

Ad aprire le “danze” è stato l’attacco ai sistemi informatici del parlamento e di diversi partiti politici, scoperto nella prima settimana di febbraio. Il primo ministro Scott Morrison, in tale occasione, attribuì la responsabilità ad agenti governativi muniti di strumentazioni sofisticate, a seguito di uno studio condotto dagli analisti informatici. Solo due giorni fa, poi, è stata pubblicata la notizia di un massiccio attacco cyber perpetrato contro l’ospedale di Cabrini, dove i file medici di circa 15mila pazienti di un’unità di cardiologia sono stati criptati sui server. A coronare la sfilza di offensive, la sede australiana di Toyota ha subito nei giorni passati un’intrusione che ha causato lo stop dei portali informatici dell’azienda, interrompendo le procedure di vendita e assistenza clienti.

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