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Perché il dibattito sull’autonomia è viziato (e complesso)

Di Antongiulio de' Robertis e Canio Trione
autonomia differenziata, Sud Mezzogiorno, federalismo

L’autonomia amministrativa ambita da alcune regioni del nord ha aperto un dibattito che appare disorganico e viziato su una questione altamente complessa. L’esito più probabile di esso sarà che le regioni settentrionali tratterranno una percentuale del proprio gettito totale più piccola di quella ipotizzata oggi mentre l’ampliamento delle loro competenze sarà riconosciuto quasi in toto. Avremo così non uno ma due centralismi e burocrazie: quello regionale e quello nazionale (oltre a quello europeo).

Nella seconda Repubblica il sud è stato rimosso dall’agenda politica. I due contendenti di quel periodo politico erano entrambi guidati e animati da esponenti della società e dell’ economia del nord e quindi l’intero periodo – pur tra alterne vicende – ha visto il sud sostanzialmente sparire dal lessico politico. Ne è conseguito un progressivo crollo degli investimenti pubblici e privati al sud come attestato da infinite statistiche.

Il meridionalismo pur silente e spesso incarnato da esponenti che rispondevano e rispondono ad interessi più generali, rimane ispirato da una concezione rivendicativa – sostanzialmente di sinistra – della questione: “I meridionali sono più poveri e quindi devono avere di più per ridurre le differenze” sotto forma di aiuti, trasferimenti, investimenti mirati, varie formule che comunque non inficiavano l’impostazione di fondo. Questo tipo di meridionalismo (che viene accusato di essere questuante) affonda le sue radici in tempi lontanissimi ma mai ha risolto nulla e ha offerto ai settentrionali la possibilità di considerare il sud sostanzialmente ed ineluttabilmente assistito.

Risorge così l’aspirazione del nord a mantenere i propri fondi semplicemente perché spenderli al sud è inutile. Nessuno dice che parte significativa del gettito ottenuto dal sud è stato per decenni speso al nord, né che sistematicamente per decenni i risparmi del sud sono stati investiti dalle banche nazionali al nord, né che il credito al sud è stato sempre più caro e più raro che al nord… nessuno riconosce il diritto di riportare al sud almeno parte degli utili ottenuti con quegli investimenti effettuati al nord.

Ma la cosa più impressionante non è l’assenza del sud nell’attuale dibattito ma l’assenza di considerazione e di rispetto per i cittadini del nord e per il loro futuro. Infatti si disputa all’interno di una parte politica e territoriale (e fino ad ora senza alcun contraddittorio serio) sul chi deve mettere le mani sui fondi del gettito: il centralismo romano o quello regionale! e quindi si fa dipendere il futuro delle popolazioni interessate dalla bontà della gestione regionale di quei flussi. Ai cittadini andranno i benefici benignamente erogati dalle future generazioni di amministratori mentre il loro carico fiscale non viene in nessuna maniera evocato. Il che denota una concezione dell’economia e dello sviluppo come un fenomeno interamente dipendente, quasi ne fosse una parte, della pubblica amministrazione. Disprezzo del ruolo del cittadino e della sua capacità di intrapresa economica e del merito nel conseguire i successo dell’iniziativa imprenditoriale. Il che, a ben guardare, è il problema della economia italiana ed europea e la vera, intima ragione delle instabilità e contestazioni che fioriscono in ogni parte d’Europa.

Questa concezione così ristretta e bigotta delle proposte del nord trova pari espressione nei commentatori meridionali che avversano l’autonomia delle regioni settentrionali per le stesse ragioni, naturalmente viste da sud, ma che denotano anch’esse la stessa idea di uno sviluppo che deve venire e non può non venire – sempre secondo costoro – che dalla spesa pubblica. Asserire queste cose in un momento in cui il bilancio pubblico versa in condizioni disperate ed insistere in una idea che è ampiamente fallita nel passati decenni denota inequivocabilmente la insufficienza della cultura politica italiana e condanna l’economia nazionale alla stagnazione per ancora decenni cioè fino a quando non si imporrà una nuova idea di economia e un nuovo sistema di proposte maggiormente incentrate sulla persona e sulla sua capacità di intraprendere liberata da quei molteplici lacci e laccioli già denunciati in passato da una personalità come Guido Carli. Cioè sulle Pmi e sulle famiglie imprenditrici e sul diffuso impegno di milioni di soggetti e non esclusivamente sulla efficienza delle tecnostrutture nazionali, regionali o europee.

In questo immenso equivoco ci si dedica a calcolare cosa accadrebbe se si facesse una tale cosa o quanto perderebbe il sud nella tale altra ipotesi… senza accorgersi che buona parte del Pil del sud viene incluso in quello del nord (come il prodotto della grandi imprese allocate al sud) e che la totalità dell’energia (come quella verde in cui il sud primeggia in Italia e in Europa) e del petrolio del sud viene sottratta ai meridionali fin dal loro formarsi. Che dire poi delle materie prime agricole che vengono vendute a prezzi ridicoli per beneficiare la Gdo che deve riempire gli scaffali di dieta mediterranea a pochi centesimi il chilo? La unitarietà d’Italia e i ripetuti tentativi di omogeneizzare il sud al nord hanno creato una rete di intrecci perversi tutti di fatto favorevoli al nord; né si può immaginare cosa potrebbe essere il Pil del nord e quindi il relativo gettito se il prodotto del sud fosse pagato in modo meno simile ad una elemosina; le proteste per il latte, l’olio, la carne, lo testimoniano mentre altre categorie non hanno neanche la forza di protestare, né vantano rappresentanti sufficientemente autorevoli ed influenti.



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