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Cosa c’entrano Trump e l’Arabia Saudita col ricatto del National Enquirer contro Jeff Bezos?

Usando la piattaforma di condivisione Medium, Jeff Bezos (per chi non lo conosce: l’uomo più ricco del mondo, ideatore e capo supremo di Amazon e proprietario dal 2013, a titolo personale, del Washington Post), ha scritto un post in cui ha raccontato di come David Pecker, proprietario di un tabloid gossipparo e cospirazionista, il National Enquirer, lo abbia minacciato di pubblicare sue fotografie private per ottenere in cambio un trattamento favorevole da parte del WaPo sulle beghe giudiziarie dell’Enquirer e dello stesso Pecker.

Il post, piuttosto lungo e arricchito dalle mail scambiate tra i legali di Bezos e il curatore dei contenuti del tabloid, si intitola “No thank you, Mr Pecker” e tra le altre cose dice: “La proprietà del Washington Post è una cosa molto complessa per me. È inevitabile che certe persone potenti che sono oggetto della copertura del giornale pensino in modo non giustificato che io sia un loro nemico. Il presidente [Donald] Trump è una di queste persone, come appare ovvio dai suoi tanti tweet”. Pecker e Trump sono per così dire alleati, l’Enquirer pubblica solo pezzi pro-Casa Bianca arricchiti da qualche informazione distorta, alterata, o inventata e di gossip a volte interessato.

Ma il presidente non c’entra direttamente con questa storia (sebbene già in passato Trump abbia usato forme di pressione contro Amazon per intralciare le attività giornalistiche del WaPo, che spesso pubblica notizie bomba sull’amministrazione e dà della presidenza Trump una copertura per niente asservita; da watchdog del potere, come da scuola di giornalismo).

Nelle ultime settimane il National Enquirer s’è molto dedicato al divorzio tra Jeff e MacKenzie Bezos, che ha fatto il giro del mondo perché la moglie, con cui il magnate era sposato dal 1993, avrà diritto a una quota enorme (e ricchissima) delle azioni delle holding che controllano Amazon. Il tabloid ha fatto per certi versi il suo lavoro: ha mandato paparazzi a pedinare Bezos pubblicando foto di lui con un’altra donna, che è stata descritta come il motivo della separazione. Poi ha pubblicato alcuni messaggi tra Bezos e quella che dovrebbe essere la sua amante. Qui entra lateralmente in gioco Trump, che in quei giorni ironizzava su Twitter che un giornale “piuttosto più accurato” del suo “Amazon Washington Post” aveva preso in castagna “Jeff Bozo”, come lo chiama lui.

Bezos spiega: “Ho dato mandato a degli investigatori di scoprire come quei messaggi fossero stati ottenuti, e per quale ragione. Ho chiesto di guidare la mia indagine a Gavin de Becker (un famoso analista e investigatore usato da governi e società private tra cui Amazon per gestire sicurezze e questioni spinose, ndr), che conosco da vent’anni, ha grandi competenze nel settore ed è una delle persone più intelligenti e capaci che conosca. Gli ho detto di dare massima priorità a questa indagine e di usare tutte le risorse e il denaro necessario a scoprire la verità”. E aggiunge: all’inizio ci fecero un’offerta verbale. O interrompevamo la pubblicazione sul WaPo di articoli giornalistici che riguardavano Pecker e il National Enquirer, oppure loro avrebbero pubblicato altri miei Sms privati. Poi aggiunge: “Ho la sensazione che noi non abbiamo reagito a questa minaccia con abbastanza spavento, perché poi ci hanno inviato questo”, e sciorina un’offerta scritta inviata il 5 febbraio  da Dylan Howard, responsabile dei contenuti della società editrice che proprietaria del tabloid, a uno degli avvocati di Bezos. Howard diceva di avere materiale parecchio compromettente, compreso una foto del pene di Bezos.

Si vede che per loro era “un’offerta imperdibile”, polemizza ancora Bezos, perché l’hanno messa per iscritto (che è un modo in cui creare una prova inconfutabile su un reato di estorsione che stavano commettendo, e dunque in effetti all’Enquirer dovevano essere piuttosto sicuro di aver successo. Ndr). “Beh, l’email ha attirato la mia attenzione”, dice, “ma non nel modo che loro speravano. Qualsiasi imbarazzo personale possano causarmi viene dopo, perché è in ballo qualcosa di più importante. Se io, nella mia posizione, non mi oppongo a questo genere di estorsioni, chi potrebbe mai farlo?”.

In un’altra mail pubblicata da Bezos l’estorsione è ancora più chiara: Howard dice che o Bezos (o il WaPo) dichiarano pubblicamente di “non avere nessun elemento per sostenere che le scelte editoriali del National Enquirer abbiano motivazioni politiche o influenzate dalla politica”, oppure le foto e i documenti sul magnate di Amazon verranno pubblicati. Bezos chiude il suo lungo post così: “Ovviamente non voglio che le mie foto private vengano pubblicate”, ma “non voglio nemmeno partecipare al loro noto comportamento ricattatorio, alle estorsioni, ai favori e agli attacchi politici, alla corruzione. Preferisco alzarmi in piedi, rovesciare questo tronco e vedere quali vermi ne strisciano fuori”.

L’Enquirer è un giornale piuttosto denigrato che ha spesso come obiettivo programmatico i progressisti americani, e si lancia in scoop fasulli per alzare vendite e infuocare opinioni (per esempio, famosi furono i reportage sul tradimento tra Michelle e Barack Obama, completamente privi di fondamento). Il giornale lavora secondo quello che è stato definito da un suo ex collaboratore “catch&kill“, cattura e uccidi. Ossia, prendere informazioni compromettenti su qualcuno di importante e metterlo sotto ricatto: favori o soldi per evitarne la pubblicazione.

Il giornale, tramite il suo editore Pecker, aiutò Trump durante la campagna presidenziale del 2016, non solo pubblicando pezzi a suo sostegno (e calunniando gli avversari), ma anche comprando i diritti per la vicenda di Karen McDougal, modella di Playboy che dice di aver avuto una relazione sessuale extraconiugale con Trump tra il 2006 e il 2007.

Pecker si assicurò che McDougal non raccontasse la sua storia, comprandone l’esclusiva con un contratto di non divulgazione; secondo un’inchiesta dell’Associated Press tutti i documenti riguardanti la storia della donna con Trump sono conservati in una cassaforte dentro un ufficio di Pecker. L’ex avvocato e amico di Trump, Michael Cohen, che sta collaborando con la giustizia come Pecker (il quale si è per questo assicurato l’immunità l’agosto scorso), ha raccontato come andarono i fatti: i soldi per i diritti erano stati tirati fuori dal comitato elettorale trumpiano. Cohen è stato condannato a tre anni di carcere per deviazione di fondi elettorali e uso illecito degli stessi, e ha anche ammesso che Trump aveva partecipato a progettare il piano per insabbiare la storia della Playmate.

Oltre alla vicenda McDougal – reato federale negli Stati Uniti – Pecker e American Media Inc. (la più grossa società editrice di tabloid negli Stati Uniti controllata per maggioranza da Pecker e proprietaria dell’Enquirer) sono sotto accusa per aver condotto delle attività di lobbying non esplicite e non registrate per conto dell’Arabia Saudita. Anche questo, fosse appurato, sarebbe un reato federale.

Questi collegamenti sono usciti anche sul Washington Post, che sta facendo un grosso lavoro sui sauditi dopo l’assassinio di un suo editorialista, Jamal Khashoggi, avvenuto in circostanze ancora non del tutto chiarite all’interno del consolato saudita di Istanbul. Khashoggi, critico del governo di Riad e del nuovo corso del potere, è stato ucciso da una squadraccia dei servizi segreti del regno e si sospetta che sulla missione abbia avuto il ruolo di mandante l’erede al trono Mohammed bin Salman (oggi il New York Times pubblica uno scoop: l’Nsa starebbe cercando tra vecchie intercettazioni, e da queste ne sarebbe uscita una in cui bin Salman già un anno fa parlava di voler usare “una pallottola” contro il giornalista).

Bezos nel suo post ha anche raccontato che un rappresentante legale dell’Ami, ha detto che l’editore era “furioso” per via della inchieste su di lui e sui rapporti grigi tra National Enquirer e Arabia Saudita pubblicati dal WaPo. È quelli a cui si riferisce Howard quando ricattava Bezos.

 

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