La Camera degli Stati Uniti ha votato una legge per bloccare il sostegno militare americano all’Arabia Saudita in Yemen, dove è impegnata da quattro anni nella guerra per riconquistare il paese dall’avanzata dei ribelli indipendentisti Houthi. La scelta dei legislatori mette pressione sul Senato, controllato dai Repubblicani, che adesso dovrà avallare o meno la mossa della Camera, a maggioranza democratica. Un indizio sulle reazioni della camera alta: a dicembre scorso era passata tra i senatori una risoluzione simile a quella votata ieri nell’altra alta di Capitol Hill, ma ai tempi bloccata dalla Camera, ancora in mano ai Rep. Ieri , invece, diciotto repubblicani del Freedom Caucus hanno votato con i deputati democratici.
Ci sono tre linee di ricostruzione dietro a questa decisione presa dai congressisti: una che riguarda la politica interna, un’altra che riguarda la politica internazionale e una che mette in difficoltà amministrazione e presidenza (così come forse le altre due). Primo, il voto dei deputati serve a rompere la continuità con cui la Casa Bianca e il governo americano hanno difeso il regno saudita anche davanti a fatti enormi, come l’assassino del giornalista Jamal Khashoggi (che, secondo le informazioni raccolte dalle intelligence americane e spifferate alla stampa in questi tre mesi, sarebbe stato vittima di un agguato organizzato da una squadraccia dei servizi segreti sauditi inviati al consolato di Istanbul per ordine dell’erede al trono Mohammed bin Salman, che vedeva nell’editorialista del Washington Post un nemico politico che avrebbe potuto minare il corso del potere che lui incarna).
Secondo, i congressisti hanno già preso questo genere di posizioni all’interno di un dossier scabroso come quello della guerra in Yemen, che sta mettendo in difficoltà gran parte degli alleati sauditi. Riad dal 2015 è entrato in guerra contro gli Houthi – il gruppo ribelle nordista è una setta ribelle sciita, sostenuta in via indiretta dall’Iran sia nell’ottica dell’internazionale dello sciismo che Teheran si è intestata, sia nell’ambito delle continue attività di interferenza maligna con cui la Repubblica islamica cerca di destabilizzare a proprio favore le dinamiche regionali. Però i sauditi, con i loro alleati (in primis gli Emirati Arabi), nonostante la superiorità tecnologica data dalle armi occidentali a disposizione, non riescono a sconfiggere i ribelli e nel corso di questi quattro anni hanno causato enormi danni collaterali, con migliaia di vittime civili, dovute ad azioni spregiudicate e in parte imbranate.
Terzo, la questione Iran. Togliere il sostegno all’Arabia Saudita sullo Yemen può essere problematico per la politica di ingaggio che gli Stati Uniti hanno avviato contro Teheran – aspetto che sta diventando centrale nella strategia che Washington sta adottando nella regione in accordo con gli alleati del Golfo e Israele. Quando bin Salman lanciò la campagna yemenita (ai tempi non era erede al trono, ma da ministro della Difesa iniziava a giocare le sue carte per conquistare completamente il potere), Washington accolse la decisione di Riad come la concretizzazione di un’idea politica che ritiene fondamentale: l’alleggerimento del ruolo esterno, collegato a un maggior coinvolgimento degli alleati nei vari affari regionali. La missione di Riad contro gli Houthi – che avevano rovesciato il governo di Sanaa – era un esempio di come gli Stati Uniti avrebbero potuto disimpegnarsi dalle dinamiche locali appaltando il lavoro a partner affidabili; e lì l’effetto era doppio, aiutare il governo amico yemenita (fondamentale nella cooperazione per la lotta al terrorismo qaedista annidato nel paese), ma anche contrastare le diffusioni velenose iraniane. Il secondo è un aspetto che nel corso degli ultimi due anni di amministrazione Trump è diventato centrale.
Sostenere i sauditi però è ormai imbarazzante, e gli apparati americani usano Capitol Hill per cercare una via per smarcarsi. Una situazione che è peggiorata sommandosi al caso Khashoggi, diventando frustrante. Se la legge votata alla Camera dai democratici passerà anche al Senato (dove i colleghi di partito del presidente hanno già dimostrato infelicità su altri dossier esteri affrontati dalla Casa Bianca), allora il presidente Donald Trump si troverà in una posizione scomoda: costretto dal Congresso a prendere una decisione che non vorrebbe, potrebbe aver la necessità di porre il primo veto della sua carriera (cosa già ventilata durante il weekend passato). La legge votata alla Camera è un uso più unico che raro del War Powers Act, provvedimento votato nel 1973 (ai tempo della guerra in Vietnam e di un’amministrazione Nixon con cui la politica era in crisi) che permette al Congresso di bloccare il presidente su questioni militari, ma che non è mai stato usato prima per evitare di interferire con la Casa Bianca su faccende delicate come la guerra. “Questa è la loro opportunità (dei senatori, ndr) di inviare un messaggio ai sauditi che il loro comportamento su Khashoggi e il loro flagrante disinteresse per i diritti umani non è coerente con il modo americano di fare affari e non in linea con i valori americani”, ha detto al New York Times il deputato democratico Ro Khanna, che ha curato la legge (sta cercando di introdurla dal 2017, ma senza successo, visto che finora la Camera era repubblicana).
La Casa Bianca considera l’appoggio dato a Riad sullo Yemen minimo e dunque un contesto non applicabile per il War Powers Act. Gli Stati Uniti stanno aiutato l’Arabia Saudita con condivisione dell’intelligence per scopi di targeting, supporto logistico e, fino a poco tempo fa con il rifornimento aereo (ora interrotto). La presidenza fa sapere che le azioni del Congresso potrebbero essere incostituzionali, e il supporto americano ai sauditi non è sufficiente a giustificare l’ostilità messa in atto dai legislatori. In effetti è evidente che dietro alle mosse dei congressisti ci sia un senso di contrasto a certe azioni di governo di Trump: un po’ è spin politico dei Democratici, un po’ è insoddisfazione dei Repubblicani.