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Immunità e garantismo. A Salvini il suo mestiere

salvini, sea watch

Sul caso Diciotti il sondaggio di Emg Acqua, presentato ad Agorà, ha rivelato che il 57% degli intervistati ritiene che la Giunta del Senato non dovrebbe concedere al Tribunale dei Ministri di Catania l’autorizzazione a procedere contro Matteo Salvini. Per la maggioranza degli italiani, dunque, non è giusto che il leader leghista sia processato, ma perché hanno ragione?

Lo aveva spiegato limpidamente il procuratore Carmelo Zuccaro, quando aveva chiesto l’archiviazione per il Ministro dell’Interno reputando l’atto “frutto di una scelta politica, non sindacabile”: conclusioni disattese dal collegio dei magistrati catanesi, intenzionati a spingere sul pedale dell’accusa con l’idea di sequestro di persona aggravato. Ora la decisione pregiudiziale passa alla Giunta elezioni e immunità parlamentare ma la spaccatura politica nel governo e nella maggioranza sta rendendo la questione sempre più scottante. Ecco perché è bene ricordare il fondamento dell’immunità, che è cosa diversa dal professare la religione del garantismo, tanto di moda.

L’immunità attribuisce ai titolari di una specifica funzione istituzionale una situazione giuridica protetta, consentendo, ad esempio, di non essere sottoposti alla giurisdizione della magistratura ordinaria o di essere giuridicamente irresponsabili di alcune categorie di atti: si tratta di una considerevole eccezione ai princìpi dello stato di diritto che perciò richiede un forte fondamento. La deroga nasce per salvaguardare le assemblee elettive da intenti persecutori del Re e della magistratura, all’epoca subordinata alla Corona e alle sue direttive (chi voglia approfondire troverà online il classico di Stubbs, The Constitutional History of England, 1874-5).

Nella vigenza dello Statuto albertino, autorevoli commentatori italiani interpretavano l’immunità come la caratteristica “più essenziale all’ufficio di membro delle Camere” (Racioppi-Brunelli, 1903), una guarentigia ineliminabile affinché il politico potesse esercitare la funzione legislativa e di controllo nella massima libertà da vincoli e condizionamenti. “Persino i Ministri”, asserivano i commentatori dello Statuto, “si troverebbero impediti nella difesa dei propri atti innanzi alle Camere” se le loro parole potessero dare adito a contestazioni legali.

L’immunità era tanto una forma di protezione dagli abusi della maggioranza quanto un rifugio da quel potere giudiziario “politicizzato” o persino “anarchico”. Oggi le cose sono cambiate, visto che la magistratura è indipendente (anche se non del tutto de-politicizzata). L’immunità è stata ripensata e ridimensionata, al passo coi tempi. Essa serve, nei suoi attuali limiti, come una veste utile ad approntare una sufficiente tutela alla libera esplicazione del mandato parlamentare e politico e resiste, per quanto possibile, agli attacchi di chi la vorrebbe cancellare del tutto in nome della “modernità”. Ci si aspetta che chi ci governa non agisca come un rappresentante della nazione, ma piuttosto al ceo di un’impresa.

Per questo è ancora vivo l’interesse di quanti, al contrario, si spendono per ricostruire la differenza fra “prerogativa” e “privilegio”. La prima, infatti, si accompagna in maniera, oserei dire, consustanziale all’esercizio di una funzione prevista da un ordinamento e serve, per l’appunto, ad agevolarne la migliore esplicazione. Il “privilegio”, invece, è un vantaggio attribuito, senza una specifica giustificazione, allo scopo di sottrarsi ad un onere od obbligo spettante alla normalità dei cittadini.

Ma allora Salvini ha ragione a farsi scudo dell’immunità o no? L’abuso dell’istituto dell’immunità, avvenuto con un trend sostanzialmente immutato negli ultimi cinquant’anni, tanto da scomodare varie volte la Corte Costituzionale, ha fatto sì che la prerogativa fosse percepita sempre più come un privilegio. Arbitrario, perché “la casta non ne ha più diritto”, e quindi bersaglio esecrato dai populisti. Un segnale premonitore di questa tendenza era stato il referendum del 1987, che aveva aperto la strada alla modifica dell’art. 96 della Costituzione: nel giudizio d’accusa sui ministri, infatti, questi non si trovano più al cospetto del Parlamento in seduta comune ma della Magistratura ordinaria, costituita in Tribunale dei Ministri (che non è altro che una sezione specializzata competente per i reati ministeriali).

Resta ai ministri un solo retaggio del passato: l’autorizzazione a procedere. Uno scudo che nel caso Diciotti i grillini sarebbero pronti a negare. L’altro baluardo della classe politica, anch’esso sfilacciatosi a partire dal 1993 dopo alcune note vicissitudini di cronaca, è l’art. 68, che riconosce a certe condizioni l’insindacabilità e l’inviolabilità parlamentare. Oggetto di un uso opportunistico e sconsiderato proprio dai filistei del cosiddetto garantismo, se ne è talmente approfittato che anche questa guarentigia riceve ormai gli strali di altri soliti noti, i fautori del divieto di mandato imperativo. Questi, nella foga abolizionistica per ora limitata all’art. 67, vorrebbero rendere i signori onorevoli dei pianisti non pensanti.

Ma non si può avere la botte piena con la moglie ubriaca. E l’opinione pubblica, come dimostra il sondaggio citato in apertura, non cede alle voci suadenti delle sirene del giustizialismo populista. Salvini, dice la maggioranza degli italiani, ha tutto il diritto di chiedere che venga negata l’autorizzazione al Tribunale di Catania. Qui il garantismo non c’entra nulla: se l’oggetto della notitia criminis dovesse essere un atto politico, come è la politica sull’immigrazione, il Governo ne risponderebbe dinanzi alle Camere e, in ultima analisi, agli elettori, non davanti alla Magistratura. In un Paese normale è incontestabile che spetti al Senato, in quanto Camera di appartenenza, decidere se l’operato del Ministro Salvini, giustificato dall’intento della protezione dei confini nazionali, sia un atto politico compiuto nell’interesse dell’Italia o un sequestro di persona. Salvini, nel frattempo, continui a fare il suo lavoro.

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