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I conti italiani sono squilibrati. La Commissione Ue e l’arte del rinvio

coronavirus, sommella, commissione europea

C’è una ragione precisa per cui la Commissione europea segnala lo squilibrio dei conti italiani: sono squilibrati. Ne siamo consapevoli tutti, anche chi governa. Non sapendo cosa fare ci si infastidisce a sentirselo ricordare. Si può frignare, pestare i piedi, dirsi offesi, ma non cambia di una virgola: restano squilibrati. La Commissione ha ben presente lo stallo operativo italiano e, per non aggravare e incrudelire, rinvia tutto al Documento di economia e finanza. Un paio di mesi. Serve a nulla, ma intanto si posticipa. I rilievi mossi sono talmente ovvi che li avevamo già fatti, qui.

I numeri scritti nella legge di Bilancio, approvata un paio di mesi fa, sono fuori dalla realtà, la crescita prevista all’1%, tralasciando che fino a un paio di settimane prima si diceva dell’1,5% e si delirava fino al 3, non la vediamo manco con il binocolo. Andrà già bene, alla fine dell’anno, se non sarà una decrescita. Si può far finta di non sapere che questo toglie credibilità agli altri numeri, a cominciare dal deficit, si può ripetere che faremo i conti più in là, possibilmente senza interferire con il mercante in fiera elettorale (si vota fino a novembre, tanto varrebbe far scrivere il bilancio a Babbo Natale), ma sappiamo che non tornano e non torneranno. Tanto è vero ed evidente che il differenziale dei tassi d’interesse (spread) resta alto e a nostro sfavore, il che ci costa come contribuenti, ci danneggia come imprenditori e c’impoverisce come consumatori.

La Commissione avrebbe potuto tacerlo? Non sarebbe cambiato nulla. Il problema sono i fatti e i conti, non le istituzioni dell’Unione. Si può rimediare? Certo che si può, perché la macchina produttiva italiana resta potente, nonostante si faccia di tutto per gripparla. Il guaio è che siamo afflitti da un keynesismo per poveri, di spirito, cultura e senso di responsabilità, una roba assistenziale che farebbe urlare di rabbia sir. Maynard, se solo potesse uscire dalla tomba. Certo che in recessione la spesa pubblica, anche in deficit, può aiutare a ripartire, ma non funziona di sicuro in un Paese che è afflitto da troppa spesa pubblica improduttiva.

A questo punto i keynesiani (fasulli) de noantri obiettano: servono investimenti pubblici. Già, peccato che i soli che fanno sono investimenti elettorali, spesa assistenziale, soldi in cambio di non lavoro o di smettere di lavorare. Controriforme al posto delle riforme. Tutta roba che serve a moltiplicare la miseria, anche morale, non certo a far crescere la ricchezza. Si sono convinti che basta mettere soldi in tasca alle persone per far aumentare i consumi, dimenticando che se consumi quel che non produci generi debiti. Che è, appunto, uno degli squilibri strutturali dei conti italiani.

Occorrerebbe essiccare il fiume della spesa assistenziale, lasciando che sul suo greto corra chi ha voglia di intraprendere e lavorare, alleggerito dal peso morto di una fiscalità demoniaca e burocrazia satanica, a sua volta innescata da quella scuola di dissipazione e rinvio. Invece no, facciamo il contrario: piccioli per il popolo ingannato e blocco dei lavori pubblici. Non è abbastanza chiaro? Basta osservare quel che accade per Tav. Per non capirlo occorre essere deficienti o mistificatori. Senza che una cosa escluda l’altra.

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