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L’Italia vista dagli Usa. Il gattopardo gialloverde

Venezuela governo giallo-verde

Cambiamento nella continuità. La politica estera doveva essere il cuore della “rivoluzione” di governo gialloverde. Dal posizionamento atlantico alle relazioni con la Russia, dai rapporti in Medio Oriente alla questione libica, il contratto sottoscritto da Lega e Cinque Stelle alla vigilia del giuramento prometteva di rivedere da cima a fondo alcuni fra i punti cardinali della postura dell’Italia nel mondo. A nove mesi da quelle premesse non c’è ombra di grandi discontinuità. Galateo e linguaggio della diplomazia gialloverde saranno anche diversi, ma i fondamentali sono rimasti gli stessi che hanno guidato le relazioni internazionali dell’Italia per settant’anni. L’appeasement di certi giacobinismi insiti ai due partiti di governo non è passato inosservato fra gli addetti ai lavori della politica internazionale. A gettar luce sul file rouge che unisce l’attuale governo italiano ai suoi predecessori un’analisi del German Marshall Fund, think tank statunitense da sempre impegnato a mantenere vivi i rapporti transatlantici.

In un lungo editoriale la senior fellow Maria Elena Gutierrez legge le mosse della Farnesina gialloverde con il celebre aforisma de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: “Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”. Per settant’anni, scrive Gutierriez, l’Italia è stata, per citare Rudyard Kipling, “il piccolo amico di tutto il mondo”. Dal dopoguerra il Belpaese si è meritatamente costruito la reputazione di avvocato del multilateralismo, dell’integrazione europea e dell’atlantismo. Alleata con gli Stati Uniti ma mai del tutto ostile all’Unione Sovietica, amica di Israele ma con un occhio sempre rivolto ai palestinesi dell’Olp, l’Italia ha saputo accreditarsi come interlocutore affidabile e pacifico mantenendo una pur limitata autonomia diplomatica (ad esser maliziosi, scherza l’analisi del Gmf, c’è un termine italiano perfetto per descrivere il fenomeno e si chiama cerchiobottismo). La crisi degli euromissili, l’incidente di Sigonella, la guerra in Iraq e per ultima la crisi in Crimea rimangono a testimonianza della sempreverde (e un po’ illusoria) tentazione italiana del non-allineamento.

Con l’approdo di Lega e Cinque Stelle a Palazzo Chigi questi languori d’autonomia hanno rischiato di trasformarsi in aperta rottura con il passato. Gli strepitii dei pentastellati sul blog di Beppe Grillo contro l’ordine liberale e la Nato, le continue allusioni a un’Italexit di autorevoli esponenti del Carroccio, la promessa, incastonata nel contratto, di una “revisione” delle sanzioni Ue alla Russia per la violazione degli accordi di Minsk hanno fatto tremare vene e polsi agli osservatori internazionali.

Agli occhi più esperti è bastato il primo giorno al governo, nota Gutierrez, per ridimensionare le ambizioni copernicane in politica estera dei due partiti della coalizione. La nomina a ministro degli Esteri di un funzionario esperto, accorto e moderato come Enzo Moavero Milanesi ha lanciato un messaggio inequivocabile. Un paletto, come è noto, posto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo il no a Paolo Savona all’Economia, garantendo così una linea di continuità nei due più importanti dicasteri.

Da quel giugno leghisti e grillini hanno saputo preservare quell’equilibrio che ha salvaguardato così tante volte l’incolumità del Paese negli ultimi settant’anni. Un equilibrio non privo di sbandate. Più volte il filo ha rischiato di spezzarsi per la poca accortezza di certe dichiarazioni pubbliche da parte di autorevoli voci del governo (vedi Matteo Salvini) e altrettanto rilevanti voci di outsider (uno su tutti: Alessandro Di Battista). La diplomazia, però, è un’arte estremamente pragmatica: contano i fatti. Uno sguardo ai dossier che avevano fatto imbiancare i capelli a chi osservava dall’estero alla vigilia del governo rivela un quadro tutt’altro che rivoluzionario. Le sanzioni europee alla Russia sono state rinnovate per ben due volte dal premier Giuseppe Conte, che si è ben guardato dall’apporre il veto al Consiglio Europeo. I rapporti con gli Stati Uniti sono rimasti in ottima salute, complice un’intesa personale fra Conte e il presidente Donald Trump. E in salute rimarranno per il resto della permanenza gialloverde al governo, a patto che presti ascolto alle richieste americane su Cina (vedi il caso Huawei) e Iran (l’esenzione italiana dalle sanzioni secondarie non durerà per sempre). Perfino alcune manifeste antipatie verso Israele, soprattutto da parte grillina, sono state neutralizzate dalla visita di Salvini a Tel Aviv, dove ha definito “terroristi” i militanti di Hezbollah.

Il continuo braccio di ferro con l’Europa e il risentimento verso l’asse franco-tedesco possono far pensare a una rottura dei gialloverdi con il passato, ma non è così, spiega il think tank americano. Non è il caso di richiamare i coloriti confronti di Silvio Berlusconi a Bruxelles o i colpi di mano di Matteo Renzi (come non ricordare la diretta facebook con la bandiera europea sostituita da due vessilli tricolori) per capire che di rottura con la tradizione non si può proprio parlare. D’altronde gli scontri con l’Ue hanno alla base quasi sempre ragioni di portafoglio: “Se c’è una costante nella politica estera italiana […] è la sua subordinazione alla politica economica”. Insomma, anche per il “governo del cambiamento” vale la lezione del Gattopardo. E forse non è un male.



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