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Quale destino per i Foreign Fighter europei? I dilemmi dopo l’annuncio di Trump

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Ieri, parlando davanti agli ospiti della conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco, il vicepresidente americano, Mike Pence, ha detto: “Mentre sono qui davanti a voi, sul fiume Eufrate l’ultimo tratto di territorio dove una volta la bandiera nera dell’Isis sventolava è stato catturato”. Da giorni le forze curdo-arabe, in coordinamento continuo con gli alleati della Global Coalition guidata dagli americani, hanno lanciato l’assalto sull’ultimo bastione baghdadista, la fascia del Corridoio dell’Eufrate che dalla Siria scorre verso l’Iraq. Era la fetta di territorio rimasta sotto il controllo del gruppo del grande Califfato che meno di quattro anni fa era grosso come il Belgio e aveva trasformato l’organizzazione terroristica di Abu Bakr al Baghdadi in un unicum storico, il radicalismo violento islamico s’era fatto stato, l’estremismo che professa morte agli infedeli era diventato una realtà territoriale amministrativa. Poi la straordinaria operazione ibrida pensata da Stati Uniti e alleati in partnership con i curdi siriani e altre forze locali (tra cui quelle irachene) hanno spazzato via quella mostruosa minaccia che faceva da substrato logistico e ideologico anche per gli attentati in Europa, attraverso un’operazione che resterà nella storia della dottrina militare.

Azioni mirate, minimo coinvolgimento a terra, massima precisione per limitare i danni collaterali. Cooperazione è la parola chiave. Durante le azioni di questi giorni, per esempio, i curdi — accompagnati on the ground dagli stivali delle forze speciali statunitensi — erano coperti dall’altro da due bombardieri B-1, una dozzina di velivoli senza piloti armati, e due Rafale della Raf inglese. E adesso che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha deciso di ritirare quelle forze speciali dalla Siria, la cooperazione dovrà aumentare per permettere di capitalizzare il successo raggiunto in questa fase di guerra aperta nell’ottica del counter-terrorism, ossia in quella pratica complessa dove all’azione armata s’abbina quella politica sociale per evitare che, una volta allentata la presa sui grilletti, si ricreino i presupposti per la rinascita dei gruppi insorgenti radicali. Aspetto delicatissimo nella Siria non stabilizzata e in un Iraq che è già passato per certe situazioni, che diedero alla luce proprio l’Isis.

C’è la necessità di lavorare sul posto — ieri il capo del comando del Pentagono che copre la regione, il CentCom del generale Joseph Votel, ha detto che alcuni soldati potrebbero restare comunque in Siria, perché occorre mantenere i contatti con i curdi locali (perché è attraverso loro che gli Usa hanno ottenuto le migliori informazioni di intelligence con cui hanno disarticolato l’organizzazione di Baghdadi) e poi serve contenere l’Iran che s’è preso il paese e l’Iraq nell’ambito di un supporto offerto ai due governi locali, sforzo condotto da Teheran secondo la filosofia dell’internazionale sciita con cui spingere le proprie ambizioni egemoniche regionali. Quest’ultimo aspetto ha un valore politico (il bilanciamento è ciò che vogliono gli alleati regionali anti-iraniani dell’America) ma anche un valore tecnico nel contrasto al terrorismo: fu il settarismo del governo sciita iracheno a cui gli americani avevano lasciato il paese una dozzina di anni fa a creare l’humus culturale dove i qaedisti che poi diventeranno Is attecchirono.

Ora gli Stati Uniti, che iniziano a muoversi apertamente secondo quella necessità di riequilibrio e disingaggio che è un sentimento che striscia da diversi anni, chiedono ad alleati e partner di lavorare insieme in quel complesso sistema che occorre costruire per evitare che lo Stato islamico torni grande. Ieri Trump ha confermato che il ritiro delle truppe americane dalla Siria ci sarà, ma solo “dopo una vittoria al 100 per cento sul Califfato”. Poi ha messo in guardia gli alleati europei: “Gran Bretagna, Francia, Germania e gli altri prendano gli 800 combattenti dell’Isis che abbiamo catturato in Siria e li processino, altrimenti saremo costretti a rilasciarli”. Trump ha precisato che gli Stati Uniti “non vogliono vedere questi combattenti penetrare l’Europa: noi abbiamo fatto e speso molto, ora tocca ad altri fare il lavoro che sanno fare”.

È un richiamo secco, duro e contingentato. La principale preoccupazione degli europei è il cosiddetto terrorismo di ritorno, ossia l’azione di connazionali che partiti per il jihad in Siria e poi — addestrati e gasati a dovere — compiano attacchi. Azioni concordate o coordinate, o piani personali, ispirati. L’esempio di quanto già successo in Francia o Belgio. Una situazione che i servizi segreti dei paesi europei soffrono nel gestire, perché troppo ampio il fronte. E ora, sconfitto l’Is laggiù, c’è da gestire i miliziani catturati. Cosa farne? La Francia ha portato avanti un piano per esempio: dai fatti del Bataclan ha dato la caccia ai colpevoli, ha  freddato in Siria e Iraq tutti i responsabili e molti degli elementi ritenuti più pericolosi attraverso missioni mirate e scambi di informazioni con gli americani. Perché la linea dell’Eliseo è sempre stata una: meglio ucciderli in combattimento lontano da casa ed evitare così il rientro il patria.

Però il numero dei nemici è grosso, e c’è da decidere il destino di parecchi foreign fighters europei non eliminati con le armi e finiti nelle carceri temporanee costruite e gestite dagli americani. E la Casa Bianca che vuole uscire — soprattutto mentalmente — dalla Siria, chiede collaborazione agli alleati con un tono minaccioso (sennò “li liberiamo”). E gli europei si trovano davanti il problema nel problema: cosa farne di loro? L’opzione francese non vale per i sopravvissuti, in Europa ci sono stati di diritto, dunque processi e condanne. Ma l’aspetto enorme riguarda i famigliari di questi combattenti europei, che sono partiti e là hanno trovato (o sono stati raggiunti) da compagne o compagni con cui hanno creato una famiglia, figli. Che fare di loro?

Tra le persone che si sono salvate dall’ultima battaglia, quella nel villaggio di Baghouz, ci sono diverse donne straniere. Una di loro è Shamina Begum, scappata quattro anni fa dal Regno Unito quando era solo una quattordicenne affascinata (via Internet) dal Califfo. Si era unita loro, cercava là un sogno, un futuro utopico dove la realtà califfale materializzava l’ideologia. Ha partorito da poco, è straziata perché le poche medicine e la malnutrizione hanno ucciso i suoi primi due figli, avuti da un combattente. Ora dice che si è pentita, vuol rientrare a Londra, ma il governo inglese non sa come gestirla. Il carcere, la rieducazione, il re-inserimento. Questioni delicate su cui Trump dice: pensateci da soli, noi ce ne andiamo (sia con il fisico dei soldati, ma soprattutto con la testa).

 


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