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Pil e tasso di inflazione. Previsioni e disastri annunciati dalla Commissione europea

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La cosa che più impressiona, nei dati appena pubblicati dalla Commissione europea, su crescita del Pil e tasso d’inflazione, non è solo quella percentuale da prefisso telefonico (0,2 per cento di crescita nel 2019) attribuita all’Italia. Ma la sua collocazione. Il tricolore sventola all’ultimo posto. Surclassato da piccoli e grandi Paesi. Beffato anche da chi, solo qualche anno fa, sembrava sull’orlo di un default senza alcuna via d’uscita. Ed oggi, invece, come nel caso della Grecia o di Cipro, viaggia, nel primo caso al 2,2 per cento del Pil e nel secondo al 3,3. Per non parlare, poi della Spagna o dell’Irlanda (rispettivamente una crescita del 2,1 e 4,1 per cento) al cui risanamento l’Italia, al pari di altri, ha contribuito, svenandosi. Fornendo quei capitali, posti a carico della sua traballante finanza pubblica, ma necessari per consentire la ricapitalizzazione delle rispettive banche.

L’immagine è quella di un vecchio aristocratico che ha da tempo impegnato, per vivere, i gioielli di famiglia. Ottenendo prestiti – il fardello del debito pubblico – che non riesce più a rimborsare. O la fa, ma solo a patto di rendere ancora più incerto e micragnoso il suo possibile futuro. Com’era prevedibile, la risposta dei principali esponenti governativi è stata la noncuranza. Una scrollatina di spalle di fronte al diluvio di brutte notizie che accomuna ormai tutti coloro che guardano, con il necessario disincanto, alla realtà italiana. Sia la Banca d’Italia, il Fondo monetario internazionale, la Confindustria o gli analisti di mercato. Mentre la Borsa sprofonda, seppure in cattiva compagnia. Chiusura a meno 2,59 per cento. Solo la Germania è andata peggio, sull’onda di una congiuntura internazionale che vira verso il peggio. Comunque, anche in questo caso un primato negativo, seppure in compagnia. E gli spread toccano un nuovo record: 282,7 punti base, con una crescita del 6,6 per cento. Ormai a soli cento punti di differenza dalla Grecia.

Comunque ci può stare. La logica della comunicazione politica è quella che è. Resistere finché è possibile, facendo finta di nulla. Ed ecco le dichiarazioni falsamente rassicuranti nelle Aule parlamentari. “I fattori negativi – tranquillizza Giovanni Tria – che hanno determinato un peggioramento della crescita negli ultimi trimestri non sono destinati a perdurare”. Poiché “le condizioni macroeconomiche di fondo restano buone” vi sarebbero “le premesse per una graduale ripresa della crescita nel corso del 2019”. Wishful thinking: dicono gli inglesi. Che tradotto significa pensiero illusorio, speranza che la forza delle proprie aspirazioni, da sola, possa cambiare una realtà quanto meno ostile. Si può solo sperare che, al di là del gioco delle parti, vi sia, almeno, un pizzico di consapevolezza, circa la complessità della situazione italiana. Perché, se così non fosse, sarebbe un triste ed inevitabile destino.

Il nuovo referto della Commissione europea mette, nero su bianco, le cose che si dicono nei bar o che frullano nella testa della gente. La revisione è dovuta a “un rallentamento peggiore del previsto nel 2018, incertezza di policy globale e domestica e a una prospettiva degli investimenti molto meno favorevole”. Conta quindi il peggioramento del quadro congiunturale europeo: con un ribasso di 0,6 punti percentuali, che porta all’1,3, contro un originario 1,9 per cento, l’ipotesi di crescita per tutto il 2019. Ma sono soprattutto i fatti interni a pesare. Vale a dire le “le tensioni sociali e le incertezze finanziarie di molti Paesi membri”. L’Italia è ovviamente l’imputato numero uno.

Sta, quindi, il fatto che il malessere italiano è solo in minima parte il riflesso di una più generale congiuntura negativa. Se così non fosse il crollo dell’output non sarebbe risultato così consistente. Con una riduzione di oltre l’80 per cento rispetto a quanto ipotizzato solo qualche mese fa, mentre nel resto dell’Eurozona il calo è pari ad appena un terzo. Considerazioni che allargano il cuore di Pierre Moscovici. Se non fossimo stati così rigorosi nel confronto sulla legge di bilancio – queste le sue considerazioni – la situazione italiana risulterebbe ancora peggiore.

C’è un altro dato che preoccupa: il basso tasso d’inflazione. Le nuove previsioni, in linea con gli ultimi dati Istat, indicano una frenata dei prezzi che è molto più consistente rispetto alle medie dell’Eurozona: 1 per cento contro l’1,4. In genere una buona notizia, considerato che molto si dovrà alla caduta del prezzo del petrolio. Ma che si rovescia nel suo contrario, se si accompagna a quello striminzito tasso di crescita. La differenza con la Grecia o con l’Irlanda, unici Paesi che fanno registrare valori inferiori, è tutta qui. Se c’è sviluppo, il contenimento dei prezzi è ben venuto. Ma se questo manca, è il primo preoccupante segnale della possibile deflazione.

Nella retorica dei 5 Stelle, l’antidoto a tutto ciò si chiama “reddito di cittadinanza”. Quella spesa aggiuntiva che dovrebbe derivare dal trasferimento di ricchezza a favore dei ceti meno abbienti. Aumenterà la domanda interna e di conseguenza, migliorerà le prospettive di tutta l’economia. Giuseppe Conte continua a ripeterlo, quasi si trattasse di un esorcismo. Aggiungendo con un orgoglio, degno di miglior causa: “Non ci faremo dettare l’agenda politica dall’estero”. Funzionerà? Forse: se non vi fossero degli effetti collaterali. Ed essi sono dati dal movimento delle altre variabili che condizionano il quadro macroeconomico a partire dalla dinamica del credito che le banche sono in grado di erogare. Che a sua volta dipende, in larga misura, dal sentiment del mercato.

Le banche italiane non stanno vivendo la loro migliore stagione. Hanno ridotto le sofferenze, che tuttavia sono ancora tre volte tanto la media europea. Trattengono nei loro bilanci oltre 300 miliardi di titoli pubblici, che sono esposti alle turbolenze degli andamenti degli spread. Se questi salgono i loro asset si deprezzano determinando perdite che, se anche non vengono immediatamente contabilizzate, richiedono comunque, una gestione più prudente nell’erogazione del credito. Lo ha detto con chiarezza Ignazio Visco, nel suo ultimo intervento al congresso del Forex. Molto, se non tutto, dipenderà quindi dalla dinamica del debito pubblico italiano. Il cui andamento, in una fase così esposta sul fronte dell’economia reale, può determinare contraccolpi violenti.

Gli ultimi dati di Banca d’Italia, fermi a novembre, indicano uno squilibrio rispetto al tetto programmato, a livello europeo, di quasi 40 miliardi da recuperare nell’ultimo mese dell’anno. In altri momenti questo piccolo miracolo si è realizzato. Il responso lo si avrà tra meno di una settimana. Nel frattempo non si può far altro che incrociare le dita.



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