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Vi racconto come è nata la legge per le foibe. Parla Menia

Ridare dignità a migliaia di infoibati e ai profughi giuliano-dalmati che patirono tragiche conseguenze dalla barbarie titina. Questo l’obiettivo della Legge Menia (la n.92 del 30 marzo 2004), che ha istituito il Giorno del ricordo celebrato il 10 febbraio di ogni anno. La data ricorda il giorno del 1947 in cui vennero siglati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro e molte terre della Venezia Giulia, che in precedenza erano italiane.

In questa conversazione con Formiche.net l’autore della legge, l’ex sottosegretario all’ambiente Roberto Menia, esponente storico della destra italiana e attuale presidente del Movimento Nazionale per la Sovranità, ripercorre i passaggi che hanno dato vita alla celebrazione.

Quanto ha inciso nel percorso di nascita della legge Menia la sua storia personale?

È sicuramente il traguardo più significativo della mia vita politica, ma non vorrei ridurre un impegno, che considero un atto dovuto alla storia di tanti infoibati e di migliaia di esuli istriani, ad un affare solo privato. Con la legge del 10 febbraio è stato colmato un vuoto indegno che gravava non solo sulla coscienza dei precedenti legislatori ma più vastamente sulla classe politica e intellettuale. Ora non ci sono più morti di serie A e morti di serie B ed è resa giustizia e verità storica all’esodo dall’Istria, Fiume e dalla Dalmazia: un fenomeno che svuotò dalla presenza italiana quelle terre, storicamente romane, venete, italiche.

Oltre ad essere un grande segno di riconciliazione nazionale, il riconoscimento del Giorno del Ricordo ha confinato in una angolo le tesi nagazioniste o giustificazioniste. In che modo?

Con la verità dei fatti, contro la veteroideologia di chi negava e, purtroppo, nega ancora. La maturità di uno Stato e della sua classe dirigente è proprio questa, credo: farsi cronisti, raccontare e testimoniare, perché non accada più. L’orrore di un’idea geopolitica che vede la propria attuazione pratica nel massacro di persone innocenti è un qualcosa di aberrante. Le foibe in Italia, ma non solo. Il pensiero corre anche alla Shoah, ai gulag, alle persecuzioni staliniane, al genocidio degli armeni, dei ponti, dei curdi e dei ciprioti da parte della barbarie ottomana. Un qualcosa che va denunciato con coraggio e determinazione.

Le foibe furono davvero la realizzazione brutale di un piano di snazionalizzazione e di pulizia etnica?

Non vi è dubbio e ormai la gran parte degli storici ormai lo dà come fatto assodato. Va detto, in proposito, che si tratta di stragi avvenute in gran parte a guerra finita. Mentre le prime stragi, quelle compiute in Istria nel settembre-ottobre 1943, contarono circa un migliaio di vittime, oltre 10.000 furono quelle seguite al 1 maggio 1945 (occupazione jugoslava di Trieste). Non è un caso che in questo piano di sterminio, lucidamente messo in atto dagli uomini di Tito, la scelta fu prima di annientare tutto quello che poteva rappresentare istituzione o classe dirigente italiana, e quindi dai segretari comunali ai carabinieri, dagli insegnanti a tutti quelli che avevano una divisa che in qualche modo sposava idealmente l’Italia, poi spargere il terrore a piene mani semplicemente su chi parlava italiano.

Quale il ruolo del Cln?

Va ricordato, ai negazionisti di oggi, che fu il Comitato di liberazione nazionale ad inviare alla Conferenza di Parigi un memoriale nel quale si documentavano circa 12 mila giuliani deportati e scomparsi. E va ricordata a tutti la testimonianza di Milovan Gilas, vice capo del governo e segretario della Lega dei Comunisti di Jugoslavia che, in un’intervista del 1991, ammise senza giri di parole: “Io e Kardelj (dirigente del partito comunista sloveno) fummo mandati in Istria da Tito che ci disse di far andare via gli italiani con qualunque mezzo. E noi lo facemmo”.

Con la Legge Menia si è completata quella pacificazione, anche sociale, che occorre alla storia e alla politica italiana?

L’Italia è un grande Paese ma ancora necessita di un percorso di maturazione. Ricordo che gli esuli furono sparsi in 109 campi profughi sul territorio italiano: spesso erano cinti da filo spinato e le famiglie vivevano divise da coperte stese sul filo di ferro a far da pareti. Molti se ne andarono lontano e per sempre, dalle Americhe all’Australia. Avevano perduto tutto ma non la fede, la libertà e l’italianità. Ecco, mi auguro che la politica italiana recuperi quell’italianità che ci rende orgogliosi di noi stessi, e declinata in ottica futura per assumere il ruolo che ci compete.

Quale il ruolo culturale della Fondazione Alleanza Nazionale, di cui è vicepresidente?

Non smarrire quel patrimonio culturale, valoriale e umano che è stato il Msi prima, e An poi. Se un mondo intero sente ancora l’esigenza di coagularsi attorno a temi e battaglie significa che quel partito non andava sciolto, come dissi – inascoltato – intervenendo prima al congresso che sancì la fine di AN e poi, a notte fonda per punizione, in occasione della nascita del Pdl alla Fiera di Roma. Ma dal momento che il passatismo non porta buoni frutti, credo che il ruolo della Fondazione sia proprio quello di tramandare un’idea a chi in futuro, se vorrà, potrà realizzarla. L’idea di Stato Nazione, che all’interno di una cornice, recupera il senso sovrano della propria identità, negli ultimi anni sciolta nel mare magnum della globalizzazione selvaggia.

Che confini ha oggi la destra degli ex An, a metà strada tra il sovranismo leghista e gli sforzi aperturisti di Fratelli d’Italia?

Siamo in un momento assolutamente peculiare della storia politica del nostro paese post bipolarismo. Da un lato abbiamo la Lega che è oggi la forza trainante nel centrodestra (ma di un centrodestra che non c’è) , dall’altro chi prova (e penso alla Meloni) a comporre una seconda forza da alleare con Salvini, ovviamente quando sarà finita l’esperienza del governo gialloverde che oggettivamente mette assieme il diavolo e l’acqua santa. Il mio auspicio è che nasca davvero e presto un polo sovranista, con alla base quelle pulsioni che videro la destra scendere in piazza in difesa della identità nazionale, della legalità, dei diritti e dello sviluppo. Se questa strada si intraprenderà davvero, lo vedremo già in occasione delle elezioni europee.

Sarà candidato alle europee?

Non so dirlo e non è francamente un tema all’ordine del giorno. Quel che è certo è che dagli eventi legati al 10 febbraio che annualmente si celebrano in Italia, da Bolzano a Catania, ma anche all’estero (quest’anno sono stato nelle comunità italiane di Toronto e Basilea) torno a casa ogni volta con un enorme carico di speranza e calore umano. La destra italiana chiede di nuovo una grande casa. Sta a noi inseguire un nuovo sogno o far calare il sipario.

twitter@FDepalo

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