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Libano, gas naturale ed equilibri politici locali

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Il molto, moltissimo gas naturale che si va scoprendo in tutto il Mediterraneo orientale è destinato, come è facile prevedere, a trasformare rapidamente tutto il sistema economico, strategico, militare del Medio Oriente. E dei nessi tra il Grande Medio Oriente e l’Ue. Se, prima delle scoperte del Levante mediterraneo, il tema primario era la rete di contatti tra Occidente Ue e universo arabo-islamico, oggi queste trasformazioni produttive modificano i rapporti interni tra Paesi tradizionalmente produttori, ricollocano Israele in un contesto economico nuovo, fanno entrare, a pieno titolo, Paesi Ue in questo nuovo sistema produttivo marittimo. E, quindi, non è certo un caso che dal 14 gennaio scorso si sia riunito al Cairo il primo East Mediterranean Gas Forum. Tra i membri del Forum, vi erano l’Egitto, l’Italia, l’Unione Europea, Cipro, la Grecia, la Giordania e Autorità Nazionale Palestinese. Ma c’era anche Israele, certo un dato da non trascurare.

La logica di questo incontro è comunque quella di costituire, a tempi brevi, un gruppo politicamente e produttivamente coeso, tale da massimizzare gli effetti finanziari e politici di questa grande operazione e, ancora, da poter evitare politiche concorrenziali da parte di altre zone gaziere vicine. Il Golfo Persico, in primo luogo, ma anche le aree costiere del Corno d’Africa e le possibili zone estrattive al largo dello Yemen. Il programma della Conferenza era sponsorizzato da Schlumberger e Deloitte e ospitato da World Oil, Gas Processing & Lng, Hydrocarbon Processing, Petroleum Economist, Pipeline&Gas Journal e, infine, Undergound Construction. Erano presenti, come si può facilmente immaginare, anche le grandi società europee e nordamericane del settore. La data, è bene notarlo, è anche stata leggermente anticipata, quest’anno, per evidenti motivi di forte necessità politica e produttiva. Mancano al Forum due Paesi, la Siria e il Libano, che stanno in questi anni iniziando lo sfruttamento dei loro depositi off-shore in modo autonomo. Damasco, ovviamente, sosterrà in primo luogo le reti russe e iraniane verso l’Asia Centrale e la Cina, mentre il Libano utilizzerà i suoi depositi al largo, in gran parte autonomi rispetto ai Paesi vicini, per rimettere in piedi la sua economia. Zohr, il grande deposito egiziano, è stato scoperto nel 2015. Ma l’Egitto vuole anche diventare, in futuro, lo hub per tutti i passaggi di gas naturale dell’area, sia verso la Ue che altrove.

Le aree Leviathan e Karish, israeliane, sono già in produzione, malgrado alcune tensioni tra i gestori tecnici e finanziari privati e lo stato di Israele, che vuole una diversa utilizzazione di una parte delle estrazioni. Se il gas di Israele passerà dalla linea dei Balcani, verso Vienna, o dalla rete Grecia-Albania e Italia, sarà in ogni modo fondamentale per l’economia e gli equilibri strategici europei. Anzi, il gas di Israele sarà, con ogni probabilità, ancor più determinante nella prima versione operativa del Southern Corridor, quella che abbiamo denominato “viennese”, che non in quella greco-italiana. Per quel che riguarda il Libano, Beirut giocherà, lo abbiamo già accennato, soprattutto al gioco del contrasto al gas di Gerusalemme, sia per ragioni politiche che per motivi eminentemente economici. Beirut ha, fino ad oggi, indicato due Epas (Exploration and Production Agreements) ad un consorzio diretto da Total, con la partecipazione di Eni e Novatek, mentre la Norvegia e il Libano collaborano ancora, per quel che riguarda le questioni tecniche e legali, tramite il programma oil for development, che durerà fino al 2020. Ma il Libano ha anche completato la sua rete di importazione di Lng per la produzione interna di energia elettrica, problema primario per il Paese dei Cedri. E ci sono anche in essere diversi contratti in scadenza o da rinnovare, in tutto il mercato, piccolo ma importantissimo, del gas libanese. Il frazionismo politico e le numerose alleanze, dette e non dette, del Libano, non permettono un mercato omogeneo del suo gas naturale. Per quel che riguarda Cipro, l’Eni ha scoperto il Blocco 6, con all’interno il vasto giacimento Calypso, mentre Exxon-Mobil “buca” ancora il blocco 10.

La Turchia, come si ricorderà, ha recentemente bloccato la nave da esplorazione Saipem 12000 proprio pochi giorni dopo che si era scoperto il Blocco 3; ma Ankara non si è comportata nello stesso modo con il Blocco 10 di Exxon-Mobil, per il quale non manifesta attualmente alcun interesse diretto. Il problema è ben noto: i turchi ritengono che ogni attività di esplorazione e lavorazione-vendita di tutti i gas ciprioti debba andare a beneficio di entrambe le due comunità dell’isola e, quindi, non solo di quella greca. Per quel che riguarda poi il governo di Nicosia, esso sta trattando il blocco 11 (Total) e il blocco 6 (Eni e Total) ma il vero grande problema cipriota è Afrodite, il deposito di gas che dovrebbe essere collegato all’Egitto con una pipeline per permettere al Cairo la liquefazione e il trasporto verso i mercati finali. Israele, intanto, ha già messo in produzione i suoi campi Leviathan al 70%, mentre Karish e Tamim sono stati ormai pienamente finanziati e, ormai, operativi.

L’Egitto, poi, ha votato in Parlamento la fondazione di una nuova Authority nazionale per il gas naturale e riceve già normalmente lo Lng estratto dall’Eni a Zahr. Quindi, gli interessi dei vari Paesi estrattori tendono, oggi, a coincidere; e la Conferenza di cui stiamo parlando assomiglia molto alla creazione di quello che si chiamava, quando esisteva ancora la teoria economica, un “cartello”. Un cartello che dipende però dalle future reti di distribuzione in Europa, dalla possibile scelta di alcuni players di giocare al gioco, molto “americano”, dello shale gas, poi dalle mosse della Federazione Russa, che sta entrando pesantemente in questo mercato in molti scacchieri, infine dalle reazioni del nesso Iran-Qatar e, quindi, del sistema saudita che organizza il gas naturale degli Emirati. Un dato, molto interessante, è stato quello riguardante la richiesta, formulata da tutti i partecipanti, di creare una organizzazione internazionale del gas di quella regione. Una nuova Opec del gas naturale? Troppo presto per dirlo, ma l’idea vaga ancora nelle menti di molti tra i partecipanti al Forum. Il che è, secondo analisti molti cinesi, altamente probabile. E’ bene qui ricordare che i Paesi del Forum raccolgono, già da oggi, l’87% di tutto il gas naturale ad oggi conosciuto nell’Est del Mediterraneo. E che poi la logica dell’apertura agli investimenti privati e il criterio del “mutuo beneficio” fanno, di questa nuova Opec del gas, un potente attrattore per tutti i nuovi Paesi produttori, che non mancheranno, in futuro, di unirsi a questa rete. Salvo valutazioni geopolitiche che, però, non si stagliano oggi chiaramente all’orizzonte.

Né Israele né i palestinesi possono esportare il loro gas se non passando dall’Egitto, quindi le ragioni di una pace duratura saranno molto più forti del solito, nei prossimi anni. A meno che, come qualcuno prevede, non si arrivi ad un terrorismo 2.0 molto tecnologico e del tutto ubiquo, che potrebbe rivestirsi dei vecchi panni del jihad, palestinese o “globale” o, magari, di una rivolta anarchico-populista di massa, ma soprattutto in Occidente. Per non parlare, qui, del nuovo rapporto tra palestinesi e paesi arabi o islamici, che verrebbe radicalmente trasformato dalla nuova autonomia finanziaria del mondo palestinese. E poi, quali sono le sfide che i Paesi del Forum devono raccogliere per diventare stabili produttori, in un mercato così importante e geo-politicamente sensibile? E che tende alla saturazione, soprattutto per via della crisi economica strutturale dei mercati occidentali? In primo luogo, vi è il fatto che tutti i giacimenti sono in acque profonde e al largo, il che rende l’estrazione molto più costosa del solito. Non siamo ai costi dello shale nordamericano, ma poco ci manca. E già questo linkage al ciclo dei costi Usa e Canada può essere molto pericoloso, nella mente di molti decisori mediorientali. E questo potrebbe anche costringere alcuni Paesi concorrenti, fuori dal Mediterraneo Est, a giocare la carta geopolitica e militare dell’aumento stabile dei prezzi, per mettere temporaneamente fuori mercato i pozzi marini del Levante.

Gli effetti geopolitici sono, qui, difficilmente immaginabili. Poi, le infrastrutture per mettere sui mercati queste, peraltro, ingenti risorse sono estremamente costose, ancora pochissimo sviluppate e, probabilmente, con un altissimo e oggi imponderabile rischio geo-politico. I rischi geopolitici standard sono infatti ben noti: la guerra in Siria, il terrorismo, che certamente troverebbe una nuova area di azione, l’ambiguità della inane Europa, che non sa ancora quale energia vorrà consumare in futuro, tra gli acquisti rapsodici di shale americano e le forti tensioni tra Francia e Germania sul Nord Stream 2, con relativo e recente accordo sulla direttiva europea di applicazione per i gasdotti (che riguarda l’Ucraina). L’Accordi di Aquisgrana, pur essendo di certo la base dei futuri nessi tra Francia e Germania, si scontra con gli interessi a breve e medio termine di due Paesi Ue che hanno diverse e diversamente fondate, sul piano geopolitico, reti energetiche. Poi, Francia e Germania stanno comunque affossando la politica comune UE dell’energia, con il recentissimo blocco di Step (South Transit East Pyrenees) tra Francia e Spagna. La Spagna, oggi, la cosa è nota, è il paese a più alto potenziale di ri-gassificazione d’Europa, e Parigi ha intenzione di sfruttare appieno, e da sola, le reti già esistenti. Più saranno quindi concorrenziali i prezzi dell’energia ai bordi dell’Unione Europea, meno ci saranno stimoli per una politica energetica comune. Peraltro, da calcoli induttivi, ma con qualche livello di esattezza, si desume che il solo conto del rischio politico, unito ai costi strutturalmente elevati e non ancora concorrenziali di estrazione, abbia lasciato ancora inesplorato il 36% del potenziale gaziero del Mediterraneo Est.

Comunque, la struttura dello East Mediterranean Gas Forum, che ha già sede al Cairo, sarà, lo ripetiamo, aperta a tutti e, aggiungiamo noi, anche a Paesi europei che potrebbero, così, sfuggire alla morsa di una politica “renana” dell’energia, fase ultima e definitiva dell’emarginazione dell’Europa meridionale dai centri del potere Ue. Non farà parte dell’Emgf, per ora, la Turchia. E, non a caso, nemmeno il Libano. Il motivo è semplice: vi sono tensioni antichissime tra Ankara e Nicosia, ma fin dal 2003 la Turchia ha denunciato gli accordi sui confini marittimi siglati da Cipro, visto che, per i turchi, Cipro come Paese Ue non può rappresentare le due comunità locali, la greca e la turca, e quindi non ha, sempre secondo la Turchia, piena capacità giuridica internazionale. In secondo luogo, Ankara ritiene che l’autonomia di Nicosia nel delineare le sue Zone Economiche Speciali dovrebbe essere molto, ma molto ridimensionata. E, ancora, i turchi pensano comunque che anche le attuali Zone Economiche cipriote ricadano, spesso, in aree che sono, in effetti, acque turche. Quindi, la Turchia rigetta ogni tipo di attività di ricerca petrolifera a Cipro e nelle sue acque contese, e questo fin dal 2008. Peraltro, Ankara intende promuovere unicamente le proprie ricerche, sempre nell’area marittima attribuita a Cipro. Con la Grecia i rapporti turchi non vanno certo meglio. Erdogan reclama da anni il possesso di molte isole greche nel Mare Egeo; senza dimenticare nemmeno l’incidente aereo, causato da un attacco dei caccia di Ankara, che costò la vita a un pilota greco, nell’aprile 2018. Fin dalla sua visita in Grecia del 2017, Erdogan reclama costantemente la riforma del Trattato di Losanna del 1923. Ovvero la presa, da parte turca, di aree di confine con la Grecia che sono state, secondo la lunghissima polemica dei turchi in questo ambito, “prese” dagli occidentali per darle alla Grecia. Ma Erdogan polemizza fortemente contro il diritto di estrazione petrolifera e gaziera dei greci in determinate zone di mare, sempre al confine tra i due stati, ma fuori dall’ambito cipriota, che egli ritiene facciano parte di un nuovo confine, finalmente legittimo, tra la Turchia e le isole greche. Ankara non è nemmeno d’accordo sulle attuali relazioni tra la Grecia e la Libia, visto che, ripetutamente, la Turchia polemizza con Atene per le sue operazioni petrolifere dirette nella piattaforma continentale libica, che ritiene debba spettarle per una maggior quota.

Ma c’è anche un ulteriore différend tra Ankara e l’Egitto. Erdogan, in effetti, non ha mai accettato in pieno il golpe dei Servizi militari egiziani che, in undici giorni, ha messo fuori gioco, nel 2013, Mohammed Morsi e il suo governo della Fratellanza Musulmana, al Cairo. Peraltro, come si ricorderà, Erdogan, uomo che ha molti legami e sottilissimi, ancora, con l’Ikhwan, chiese perfino al Consiglio di Sicurezza dell’Onu le sanzioni specifiche contro l’Egitto e le sue operazioni interne contro un governo che, certamente, ha messo fuori gioco un governo democraticamente eletto, quello di Morsi, ma che comunque proveniva da una grande ma oscura operazione mediatica, politica e strategica, quella delle primavere arabe. Un vice-direttore della Cia, Michael Morell, lo ricordiamo, ha scritto, in un suo libro di memorie, che le “primavere” furono ingegnerizzate dall’Agenzia per favorire le rivolte popolari “contro Al Qaeda”. I risultati di questo folle ragionamento si sono visti presto. Ma Erdogan non demorde, e spesso reclama la liberazione di tutti i prigionieri politici detenuti nelle carceri egiziane. Eppure, le tensioni di questa vera e propria mad card del Mediterraneo Orientale, ovvero la Turchia, non si fermano nemmeno nei confronti di Israele, un tempo il suo miglior alleato in tutto il Medio Oriente, quando Ankara era ancora erede della vecchia repubblica “laica” di Atatűrk, con i giovani turchi che si esercitavano alla presa del potere nelle numerose Logge del Grande Oriente d’Italia sparse nell’impero ottomano. Ricordiamo poi qui la tensione tra Gerusalemme e Ankara durante l’operazione “piombo fuso” del 2008-2009 o la questione della Navi Marmara del 2010.

La situazione tra i due Paesi non è mai ritornata alla normalità, malgrado le scuse alla Turchia di Israele, organizzate rapidamente dagli Usa nel 2013 e con la successiva normalizzazione del 2016, in parte giustificata proprio dal nuovo panorama energetico del Mediterraneo Orientale. Poi, ancora, l’espulsione dell’ambasciatore israeliano da Ankara, nel 2018, e ancora l’accusa di Erdogan a Israele di “genocidio”, infine la scelta, che la Turchia ritiene fortemente voluta da Israele, di portare l’ambasciata degli Usa a Gerusalemme. Quindi, da una parte, la stessa estrazione degli idrocarburi marini del Mediterraneo del Levante richiede un grado elevatissimo di collaborazione tra tutte le parti in causa, dall’altra è proprio la nuova ricchezza del Levante a creare nuove linee di frattura e a rinfocolare antiche tensioni. La percezione di un comportamento “aggressivo” turco, infatti, è quella largamente più diffusa, oggi, tra tutti i partecipanti (ma ovviamente non dall’Italia) al Forum del Cairo. Questa tensione riguarda però anche il Libano, dove molti dirigenti ritengono ancora che il Forum sia diretto, principalmente, contro il loro Paese. In sintesi, i libanesi, soprattutto con questo nuovo e recente governo diretto da Saad Hariri, ritengono di potercela fare da soli, a estrarre e a monetizzare efficacemente le loro risorse gaziere marittime. Il Libano, sostengono infatti alcuni ministri di questo governo Hariri-Hezb’ollah, potrebbe collegarsi all’Europa tramite il nord della Turchia (ecco un’altra tentazione, per Ankara) verso l’Europa attraverso l’Arab Gas Pipeline, anche se, ovviamente, l’estensione di questa rete con la pipeline in Siria è ancora da completarsi. Ma ci sarebbe anche la linea via Egitto, sempre utilizzando l’Arab Gas Pipeline. Insomma, i libanesi pensano di essere stati buttati fuori, ma si accorgeranno presto che esiste la possibilità, anche e soprattutto con un Forum in cui vi è anche Israele, di utilizzare al meglio e, soprattutto, presto, i sistemi di distribuzione messi in atto dal Forum.

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