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Mattarella, la lungimiranza e il sano realismo

I richiami del Presidente della Repubblica sono sempre molto importanti: vanno letti, seguiti, ascoltati, dovendo essere, come ogni asserzione autorevole, valutati, giudicati ed interpretati personalmente. Non importa, infatti, essere d’accordo perché le parole dette pubblicamente dal Colle abbiano una loro rilevanza. L’occasione, in questa circostanza, è stata data dai cinquant’anni della Fondazione dello Iulm a Milano. Rivolgendosi particolarmente ai giovani universitari, Sergio Mattarella ha affrontato un tema a lui molto caro: l’Europa. Pensando all’Italia, ha precisato: “Non aspiro che il nostro Paese ragioni in termini di secoli, sarebbe ampiamente sufficiente e sarei pienamente soddisfatto se si ragionasse in termini di decenni, avendo la capacità di essere pronti al futuro per progettarlo”.

L’attenzione si è raccolta sul nostro continente che, ad avviso del presidente, continua ad avere un avvenire, possedendo una cultura che supera i confini geografici, e le limitazioni circostanziate e temporali che attanagliano il presente. Insomma, l’Europa continua ad essere il futuro, malgrado la perdita di entusiasmo che domina il sentire diffuso del nostro tempo.

Mattarella ha concluso, esortando a lavorare sulle capacità e sulla prontezza che stimolano i giovani a traguardi che trascendono gli accadimenti contingenti. Si tratta, a ben vedere, di parole impegnative, le quali, proprio perciò, necessitano inevitabilmente di essere decodificate e vagliate con cautela.

In primo luogo, quando parliamo di “cultura europea” dovremmo intenderci su cosa significhi realmente questa espressione. In effetti, anche soltanto a guardare la storia della filosofia occidentale è facile persuadersi che esistono molti modi, non sempre armonici, di intendere l’essenza comune: identità religiosa, identità razionale, identità scientifica, identità etica. Anzi, forse, se restassimo in superficie, dovremmo riconoscere che il conflitto tra diverse culture, e tra diverse formulazioni del senso del nostro essere civiltà, ci contraddistingue come europei molto più che i tratti condivisi, che pur ci sono, i quali ci hanno spinti insieme fin qui.

Ciò nondimeno non bisogna disperare. In questo Mattarella ha ragione nello stimolare ad una visione più lungimirante, più ottimista, meno miope e rassegnata, nei riguardi di quello che possiamo essere. In sostanza, la grande identità comune dell’Europa c’è, ma non è un dato presente. Piuttosto essa esprime la sua concreta fattibilità nell’unica unione veramente esistita ed esistente, quella creata dalla religione cristiana, la quale ha saputo assorbire nel primo millennio, pacificando i conflitti, la saggezza filosofica della grecità e la cinica idea del potere della latinità, in un minimo comun denominatore di grande forza e potenza spirituale. Non a caso, è stata proprio la frammentazione della cristianità, nel XVI secolo, a produrre successivamente il frazionamento deterministico degli Stati nazione, con tutti gli annessi e connessi, e con tutte le guerre tra popoli che abbiamo scolpiti sulla nostra pelle e incisi nella nostra anima.

Perciò è giusto parlare di identità europea, purché ci si riferisca alla sostanziale cultura cristiana che ha agglomerato e raccolto popoli divisi per lingue e origini durante il Medioevo nel nostro continente. Lo sviluppo moderno, invece, ha definito il progresso scientifico, industriale e tecnologico della vita, al prezzo, però, di spezzare il nostro continente nelle sue parti, indebolendolo moralmente i suoi fondamenti etici con secolarizzazione, individualismo e laicismo.

Una seconda osservazione riguarda il nostro oggi. Nessuno, neanche il più acerrimo e recrudescente nazionalista, pensa che l’Europa non abbia senso. Basti ricordare che furono le destre monarchiche e reazionarie, insieme ai Cristiani Popolari, a volere la Cee nel dopoguerra, non certo i cosiddetti progressisti, socialisti e comunisti che fossero, i quali guardavano piuttosto altrove: o verso Mosca, o verso la Palestina, o magari verso il Terzo Mondo. Attualmente la contestazione dell’Unione Europea proviene da chi non accetta e non vuole un’Europa finta, basata su poteri che esprimono un ingannevole universalismo, imposto artificiosamente, nascondendo interessi nazionalistici ben più dannosi persino di quelli voluti dai contestatori spudorati che la combattono frontalmente con il sovranismo.

In definitiva, ha senso parlare di un sogno europeo infranto che non deve estinguersi, sebbene abbia poco senso evocare l’idea di Europa come grimaldello di una cultura astratta e poco realistica che probabilmente è la ragione della crisi contemporanea del sentimento comune.
Quando ci si sveglia da un sonno pesante, d’altronde, si comprende subito che quello che si credeva di vivere era un abbaglio, sebbene tanto bello e tanto simile alla verità delle cose.

L’eredità dell’Europa richiede attualmente un bagno di umiltà, un ripensare il nostro passato, una revisione sostanziale del nostro modo ufficiale di intendere l’identità presente, nonché il recupero culturale della filosofia cristiana, ben oltre e ben diversamente da altre esperienze che hanno trasformato il Vecchio Continente in una prospettiva molto importante ma anche irreversibilmente astratta, materialistica, iniqua e impopolare.
Essere europei non significa essere tutti uguali, ma tutti diversi, attaccati ad una idea universale di persona umana che si dà unicamente attraverso la particolarità delle reciproche e differenti comunità storiche, non frammiste e non ibridabili con altre traiettorie umane esterne. Essere europei significa essere figli di Platone, Aristotele, Sant’Agostino e San Tommaso: vale a dire, sapersi discendenti di un binomio religioso e laico che si è mantenuto nel tempo e si è pian piano trasformato nella nostra identità cristiana, malgrado il modernismo anticristiano.

Come amava dire Hans Georg Gadamer, si è sempre figli di una storicità che sedimenta dei presupposti ineliminabili e decisivi, anche se spesso in modo inconsapevole. Contestandone l’autorità o ignorandone la portata spirituale, si finisce per cessare di essere se stessi e smettere di immaginare il proprio futuro.

Se questa Europa non piace più ai popoli europei, insomma, non è perché le persone abbiano perso speranza, ma perché l’Europa stessa non corrisponde più a se stessa e alla propria essenza. Saper rappresentare quello che ogni popolo è, vuol dire, per contro, ritrovare autenticamente la propria realtà permanente, al di sotto delle sue finte rappresentazioni retoriche, percependola come un patrimonio spirituale che costituisce dall’interno quello che si è, oltrepassando la vita breve di ciascun individuo.

D’altra parte, i maestri della Scolastica sapevano bene che “la realtà è eterna, ma sempre diversa nelle diverse cose”. E unicamente nella multiforme dissomiglianza individuale risiede la possibilità concreta di progettare l’avvenire per una civiltà che vanta così eroici antenati.

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