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All’origine non scontata dei malumori grillini nel day-after del processo a Salvini

salvini

Eravamo stati fin troppo facili profeti nel prevedere le conseguenze del voto on line: pro o contro Matteo Salvini. La risposta in tempo reale è venuta dal lungo post di Luigi Gallo, presidente della Commissione Cultura della Camera dei deputati. Grillino non solo di rito ortodosso, ma fortemente legato a Roberto Fico e Beppe Grillo. L’intervento di Gallo è diretto: “Non liquiderei così facilmente questa votazione. Il 41% degli iscritti al M5S chiede ai vertici un cambio di passo e il ritorno ai principi del M5S. Il 41% è un numero enorme. È un 41% fatto di persone diffuse in tutto il paese, sono carne e vita di cittadini attivi che credono in un sogno da almeno 10 anni, sono cittadini che ogni giorno si impegnano, sono consiglieri comunali che dedicano la loro vita al bene comune, sono sindaci che rischiano ogni giorno.”

“Questi cittadini si sono innamorati di un programma votato da 11 milioni di cittadini. – continua con la stessa enfasi – Programma, valori e principi che il M5S è chiamato a realizzare, a raccontare, a rivendicare in modo trasparente nel Paese ma anche al suo partner di governo. La Lega fa la Lega, il M5S deve fare il M5S. Il M5S ha un suo programma su immigrazione e deve rivendicarlo, ha una sua idea di solidarietà, ha dei suoi valori sull’incontro tra diversità e deve rivendicarla, poi alcuni punti si raggiungeranno, altri no ma dobbiamo chiarire dove abbiamo ceduto e dove siamo riusciti a realizzare la nostra visione. Non si può abdicare ad avere una visione politica per i nostri cittadini su ogni singolo tema, ad avere un messaggio culturale per il Paese. Tante sono le cose fatte bene ma ci sono anche gravi errori. C’è qualcuno che dice che il 41% deve andarsene, qualcun altro vuole etichettare il 41% come dissidenza. Io so invece che il 41% e pronto a mobilitarsi e vuole chiedere conto della direzione di questo governo, vuole più coerenza”.

Se non il manifesto programmatico che prelude alla nascita di una vera e propria corrente, all’interno del Movimento, poco ci manca. Se quindi l’uso di Rousseau voleva essere l’escamotage per tirarsi fuori dai guai e consentire a Luigi Di Maio di non assumersi la responsabilità della decisione, alla fine le conseguenze sono risultate ben più amplificate del rischio iniziale. Finché si può giocare con le parole, va bene. Ma alla fine i nodi vengono al pettine. E sollevano interrogativi ben più inquietanti, che riguardano i propri fondamenti identitari. Cosa sono, oggi, i parlamentari 5 Stelle? “Portavoce dei cittadini”: è stato detto più volte. Ma in questo caso il loro declassamento è risultato evidente.

Nel voto reso alla Giunta del Senato sono stati semplici portavoce della maggioranza relativa – il 59 per cento – dei 52.417 attivisti che hanno partecipato alla consultazione. Una percentuale, comunque, irrisoria rispetto agli 11 milioni di voti rappresentati in Parlamento. Numero non a caso richiamato nel post da parte di Luigi Gallo. Deve allora prevalere l’opinione di un pugno di attivisti, oppure pesare quello ben più consistente degli elettori? Nel qual caso, come? Alternativa che si riproporrà nel corso dei successivi sviluppi. Specie nel momento in cui sarà l’Aula di Palazzo Madama a fornire, specie se non sarà impedito il ricorso al voto segreto, il definitivo verdetto.

Che non possa prevalere l’opinione di un gruppo di attivisti è del tutto evidente. Ma allora con quale strumento si cercherà di essere “portavoce” dei propri cittadini? Ci sarà un referendum? Un’estensione della Rousseau? Tutte cose improbabili: a dimostrazione di quanto sia difficile uscire da questa contraddizione. Per cui, alla fine, non resta che arrendersi e riconsiderare il proprio atteggiamento verso quella vituperata democrazia rappresentativa, che i grillini considerano solo ancienne regime: pronto ad essere soppiantato dalle sorti progressive della democrazia diretta.

Nella logica costituzionale corrente, il problema non si pone minimamente. I singoli senatori, non rappresentano né gli “attivisti”, né, tanto meno, il “popolo” grillino, ma la Nazione – articolo 67 della Costituzione – per questo quelle funzioni sono esercitate “senza vincolo di mandato”. Il problema lo creano coloro che prestano il fianco alla più becera propaganda antiparlamentare. Dove l’assenza del vincolo di mandato non è vista come l’unico possibile strumento in grado di garantire la decisione, ma come l’anticamera di ogni attività corruttiva. La casta che protegge sé stessa. Che si eleva sugli altri e nega in radice il principio secondo il quale: “Uno è uguale a uno”. Mancano solo i sanculotti e poi la parodia della Rivoluzione francese sarebbe completa. Anche a costo di non capire che se si rimuove quel principio, – l’assenza del vincolo di mandato – l’intero edificio rischia di crollare. Per il conseguente blocco di qualsiasi attività decisionale. Che non può essere presa per conto di altri, ma solo in base alla propria intima convinzione. E di cui si risponde politicamente di fronte all’unico giudice titolato: il popolo sovrano, nei modi e nei tempi previsti dalla stessa Costituzione.

Ma se questo è lo schema, allora la “rete”? Qual è la funzione di Rousseau? Può sostituire quel vecchio impianto con la stessa efficienza ed efficacia? Si immagini cosa potrebbe succedere se a votare non fossero in 50 mila, ma qualche milione. E con quali garanzie dopo i sospetti di hackeraggio che hanno coinvolto democrazia ben più solide della nostra. La verità è che la “rete” deve fare la “rete”. Non va caricata di significati simbolici. Né pensare che possa divenire le fondamenta di una nuova “città del Sole”. Le democrazie moderne sono state costruite pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, in un continuo processo di adattamento alla realtà circostante. Pensare che tutto si possa all’improvviso smontare e rimontare e che poi funzioni, è solo una grande illusione. Di cui, fin da ora, si colgono le prime avvisaglie.

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