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La prima messa di Bergoglio nel Golfo e quella fede sempre viva dei cattolici emiratini

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Il dialogo interreligioso con l’islam è uno dei due cardini su cui poggia lo storico viaggio di Papa Francesco negli Emirati arabi uniti. Ne è una dimostrazione evidente sia la preparazione “mediatica” – interviste, dichiarazioni di esponenti di curia, articoli dell’Osservatore Romano – sia il fatto che tra coloro che hanno accolto Bergoglio all’aeroporto di Abu Dhabi c’era anche il Grande imam di al Azhar, Ahmed al Tayeeb, già incontrato dal Pontefice in quattro occasioni. L’altro cardine, non meno rilevante, è la visita alla comunità cattolica locale. Per la prima volta, domani, il vescovo di Roma celebrerà una messa nel Golfo, nello Zayed Sports City, davanti a – si stima – non meno di 150 mila fedeli. Una comunità dinamica, composta in gran parte da filippini, pachistani e indiani (“tranne che da emiratini”, spiegava il vescovo locale) cioè dalla manodopera straniera necessaria all’economia dell’emirato.

Ma come vivono i cattolici nel Paese? Sono 901mila, pari al dieci per cento della popolazione. Godono di molta libertà, ma sono comunque poco più che “tollerati”. Le chiese non possono esibire croci, i campanili non sono consentiti. Scriveva il vicario dell’Arabia meridionale, monsignor Paul Hinder, che gli unici grattacieli consentiti negli Emirati sono i minareti delle moschee e gli hotel. I cristiani sono cittadini di serie B, anche se la loro situazione è di gran lunga migliore rispetto a quella di altri paesi della regione: il confronto con il Qatar, distante pochi chilometri dal confine, pende nettamente in favore di Abu Dhabi.

Nonostante la disparità di trattamento – “Qui un dialogo senza padrone non è possibile”, diceva sempre il vescovo Hinder – i cattolici emiratini rappresentano un caso di studio, essendo una delle comunità più dinamiche dell’oriente. La presenza alle messe festive nelle nove parrocchie è altissima (si stimano 150 mila fedeli), il catechismo è organizzato a turni perché i bambini che vi partecipano sono migliaia. È la dimostrazione che laddove la presenza cristiana è minoranza, la fede è più viva. Tant’è che si sprecano i paragoni con l’Europa addormentata, fatta di cristiani “timidi e tiepidi”: “La maggioranza dei nostri bambini conosce la verità di fede molto meglio di quelli europei”, sottolineava Hinder. Da qui la constatazione: “Penso che dai musulmani dovremmo imparare a essere orgogliosi della nostra fede cristiana”, diceva in un’intervista a Famiglia Cristiana.

Al Corriere della Sera, mons. Hinder, osserva che comunque il bicchiere è mezzo pieno: “Sono realista. Conosco un po’ la cultura dei paesi musulmani e siamo grati di questa libertà di culto. Non parliamo di libertà religiosa, che è un altro discorso. Però questa libertà relativa è grande, soprattutto se guardiamo a nord, all’Arabia Saudita”. Negli Emirati arabi “possiamo professare la nostra fede, seppure con discrezione. Ma ad esempio è escluso che un musulmano si possa convertire, più che la legge è la loro cultura”.

Il viaggio sarà anche l’occasione per fare luce sullo stato del cristianesimo nell’intera regione. Il vicario dell’Arabia meridionale ha fatto il punto, alla vigilia della visita del Papa, in un’intervista concessa al Popolo, il settimanale pubblicato dalla diocesi di Concordia-Pordenone: “Nello Yemen non è possibile manifestare l’essere cristiani. Le quattro parrocchie prima esistenti sono state messe a riposo. Vi restano solo le suore di Madre Teresa di Calcutta, che stanno lavorando in modo straordinario. In Arabia Saudita, invece, non ci sono chiese ma c’è una religiosità sommersa che si conserva”.

Nel Golfo, considerato nel suo complesso, si stimano 2,5 milioni di cristiani presenti. Il problema, come è noto, è rappresentato dal regno wahaabita saudita: lì “nelle case private abbiamo impartito sacramenti e celebrato messe. Tutto di nascosto. Ufficialmente feste di compleanno. Non si possono accettare le eventuali domande di passaggio di religione dall’islam alla nostra. Ma dall’induismo sì, e ne avvengono”.



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