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Il vecchio Pd non ha chance. A cosa servirà il rito delle primarie

Ogni partito o movimento politico ha i suoi riti fondativi. Quello che per il Movimento 5 Stelle è stata sin dall’inizio la piattaforma Rousseau, per il Pd lo sono state le cosiddette “primarie”.

Entrambe rispondono ad una esigenza di democrazia, ovvero di partecipazione più o meno diretta, dal basso alle decisioni comuni, che sembra essere la cifra più propria del nostro tempo iperdemocratico (o sedicente tale). Ed entrambe, a dimostrazione che in politica non si può fare a meno delle élite, vi rispondono in maniera molto imperfetta e comunque “pilotata” da regole e condizioni stabilite dai vertici e più o meno palesi ai più. Non c’è da meravigliarsene: l’utopia dell’uguaglianza è un mito in sé e lo è a maggior ragione in politica, ove i rapporti di forza sono l’oggetto e il soggetto del contendere. Eppure, le primarie, il cui rito il Pd rinnoverà domenica prossima, svolgono un proprio ruolo: segnano l’appartenenza di un insieme di individui a un gruppo, fanno sì che essi si riconoscano e che si diano forza a vicenda. A volte, le primarie son servite al Pd per consacrare definitivamente il leader, per dargli maggiore forza. Altre volte, come domenica prossima, per misurare la forza di mozioni diverse.

Queste primarie cadono poi in un momento di profonda crisi del partito, sia in termini di consenso sia interna: la mancanza di una vera leadership e di idee nuove è evidente. Succede allora che le mozioni in campo più che rappresentare anime distinte del partito sembrino ai più far riferimento a gruppi di potere in fratricida rivalità fra di loro. Così agli appelli all’unità (un classico a sinistra) di Maurizio Martina, Roberto Giachetti risponde a tono che lui non vuole inciuci, minacciando persino l’uscita dal partito.

Se lo stesso Martina promette poi che mai e poi mai ci sarà un accordo con lui segretario con i Cinque Stelle, ecco che arriva una puntualizzazione di Nicola Zingaretti in politichese il cui senso è di lasciare aperta qualche porta (“penso che ci sia la necessità di rappresentare in maniera giusta temi che il M5S ha sì cavalcato, ma in maniera sbagliata”). L’unico collante che lega un po’ tutti è ovviamente l’opposizione al governo, che viene non solo accusato di essere pericoloso, secondo quella retorica dell’“emergenza democratica” che è un lascito della vecchia sinistra, ma anche, nella fattispecie da Prodi, che è intervenuto con un videomessaggio, di essere litigioso. Il che suona un po’ paradossale se solo si pensa al fatto che quello di Prodi del 2006 fu il governo più litigioso e inconcludente della storia repubblicana.

Sullo sfondo, l’ombra inquietante del grande sconfitto e del suo clan, Matteo Renzi, che, con un piede dentro e con l’altro fuori, gioca la sua partita, la quale non è chiaro quale sia. Che dire? In Italia c’è senza dubbio necessità di un’opposizione, e forse anche di una sinistra che bilanci la destra per garantire il funzionamento del sistema. Che il perno possa però essere il vecchio Pd, a chi scrive sembra altamente improbabile: uomini e mentalità sembrano irrimediabilmente appartenenti a un altro tempo storico.


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