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Conte e Visco, ovvero l’ottimismo dei politici e il realismo degli analisti

Quasi in tempo reale ed a un centinaio di metri di distanza, Ignazio Visco ha gelato il roseo ed inconsapevole ottimismo del presidente del Consiglio. “Ci sono tutte le premesse per un bellissimo 2019 e per gli anni a venire. L’Italia ha un programma di ripresa incredibile”: aveva detto in quella sua sorta di arringa da avvocato difensore. Fredda e distaccata l’analisi del numero uno di Banca d’Italia.

Confermando le previsioni dell’ultimo Bollettino economico dell’Istituto (tasso di crescita dello 0,6 per cento), ha rincarato la dose indicando la possibilità di “ampi rischi al ribasso”. Più o meno in contemporanea, il Centro studi di Confindustria preannunciava, per lo stesso periodo, un tasso di crescita prossima allo zero. Sulla stessa lunghezza d’onda del Premier, il suo Ministro dell’economia, Giovanni Tria, che, parlando a New York aveva tentato di rassicurare: “ci sono le condizioni per guardare con relativo ottimismo [al futuro]. Non vedo i segnali di una recessione nel 2019″.

Gli ultimi dati Istat (il segno meno in due trimestri consecutivi) subito metabolizzati ed archiviati. Nella speranza che il vento dell’ovest – la ripresa dell’economia internazionale – possa sostituirsi alla politica economica governativa. Tria, com’è noto, punta sulla ripresa degli investimenti. L’imperativo è “combattere il sentimento di pessimismo” che li circonda. Ma le complesse vicende della Tav, segnate dal duro scontro politico tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio, sembrano andare contro corrente.

Da qui il pessimismo del governatore della Banca d’Italia. La sua forte preoccupazione per un’economia che “dal 1999 presenta un tasso di crescita annuo (…) in media inferiore di un punto a quello dell’area dell’euro”. E che nessun esercizio d’ottimismo può esorcizzare. Ed ecco allora una diagnosi impietosa, tesa a far emergere tutte le contraddizioni che avviluppano, come un sudario, una società, come quella italiana, che sembra essersi smarrita.

“Il benessere delle famiglie – ha voluto ricordare – dipende da numerosi fattori ma è cruciale la capacità di crescita dell’economia”. Se paragoniamo queste parole alle tesi bislacche della “decrescita felice”, si può cogliere il fossato che divide l’esatta percezione della realtà dal mondo onirico dell’affabulazione.

Ma perché l’Italia sembra aver abbandonato ogni retta via per ripiegare su sé stessa? La spiegazione è di carattere sistemico. Nei parametri disallineati che ne caratterizzano i principali organi, da cui corretto funzionamento dipende il suo stato fisiologico. Alla base di tutto è un tasso di crescita insufficiente, che si riflette sulle altre variabili dell’apparato sociale. “Un premio elevato per il rischio sovrano – fa osservare il governatore – aggrava lo squilibrio dei conti pubblici, pregiudica la capacità della politica di bilancio di sostenere l’economia, comprime le risorse disponibili per gli investimenti in infrastrutture. La diminuzione del valore dei titoli di Stato incide negativamente sui risparmi accumulati dalle famiglie e determina perdite in conto capitale per gli investitori istituzionali, quali assicurazioni e fondi pensione, e per le banche, ripercuotendosi sulle loro condizioni di finanziamento sui mercati; ne risente la capacità degli intermediari di fornire credito al settore privato e sostenere, per questa via, l’attività produttiva”.

Un drammatico “circolo vizioso”. Il basso tasso di crescita alimenta tutte le tensioni sociali, a partire dai livelli di disoccupazione e di povertà relativa. Gli ultimi dati Istat, indicano per dicembre un lieve recupero. Ma rispetto a giugno, nascita del governo gialloverde, mancano all’appello oltre 116 mila posti di lavoro. A tanto sono aumentate le persone in cerca d’occupazione. Si riflette, quindi, sugli equilibri di finanza pubblica, la cui “incertezza” – fa sempre notare il governatore – non si è “dissipata”.

Tanto più che sul futuro incombono le “cosiddette clausole di salvaguardia, il cui importo è stato portato all’1,2% del prodotto nel 2020 e all’1,5 nel 2021. Se fossero disattivate senza prevedere misure compensative, il disavanzo si collocherebbe intorno al 3% del Pil in entrambi gli anni”.
Pericoli di là da venire: si potrebbe ribadire, scuotendo le spalle. Se non fosse per il fatto che i mercati finanziari sono portati ad anticipare le tendenze future.

Ed ecco allora l’intreccio, questa volta immediato, con il puzzle bancario. Considerato che nel 2019 dovranno essere rinnovati “quasi 340 miliardi “di titoli in scadenza “che si sommano ai circa 50 previsti a copertura del disavanzo.” Titoli che le banche posseggono per circa 330 miliardi contro i 280 miliardi del 2017: pari ormai al “10% del totale attività”. Titoli acquistati in larga misura negli anni precedenti, essendo la loro vita media pari a 3,6 anni, quando gli spread erano la metà di quelli attuali. Rialzo che ha comportato forti perdite di capitale, seppure non conteggiate ai fini del patrimonio di garanzia.

Dati impressionanti. Se quegli asset sono valutati al costo ammortizzato, le perdite crescono dal 2017 dal 18 al 49%, per giungere fini al 61% per le banche meno significative.
Si spiegano allora gli andamenti di borsa dei titoli bancari: i cui valori sono “diminuiti in media di quasi il 40%, a fronte di un calo del 30 nell’area dell’euro” mentre “i rendimenti delle obbligazioni sono quasi raddoppiati, al 2,4%, contro un aumento medio di 0,3 punti percentuali nel complesso dell’area” europea.

Sorte che non poteva non contagiare la raccolta bancaria: caratterizzata da un forte calo delle obbligazioni emesse, e da un differenziale in termini di rendimento – quindi di costo per gli Istituti di credito – pari all’1% (obbligazioni senior a 5 anni) rispetto a Francia e Germania. Fenomeni che spiegano la progressiva stretta del credito verso gli altri operatori economici. Questa, quindi, la diagnosi effettiva delle reali condizioni del Paese.

Che nessun ottimismo di maniera può stravolgere. Purtroppo in economia non valgono le regole della politica. La fiducia è il carburante essenziale per alimentare le aspettative. Ma richiede, per spingere in avanti, un motore minimamente efficiente, oltre a guidatori esperti capaci di sfruttarne le poche o le tante potenzialità. Non ci vorrà molto tempo per capire se queste condizioni minime esistono davvero.


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