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L’Afghanistan verso una pace? Le prospettive del ritiro Usa e il prossimo summit di Mosca

In questi giorni, gli Stati Uniti stanno cercando di arrivare a un accordo con il gruppo islamista, che ancora rifiuta di sedersi al tavolo delle negoziazioni con il governo perché ritenuto burattino dell’America. Trump ha annunciato che si ritirerà dall’Afghanistan, e così anche la Germania aveva pensato a un ritiro per poi confermare la propria presenza. La strategia del presidente Usa è la stessa per tutto il Medio Oriente, “leading from behind”, ed è ancor più deciso a metter fine alla guerra più lunga in cui sono stati coinvolti gli Stati Uniti, quasi 18 anni di conflitto in Afghanistan. Intanto la Russia si propone come mediatrice per un accordo di pace interno. Quali sono le conseguenze per il Paese e per la regione?

Il regime dei Talebani è caduto con l’invasione Usa nel 2001, ma il gruppo islamista non è mai morto e secondo un’indagine della Bbc, i Talebani avrebbero controllo o influenza considerevole sul 70% del territorio del Paese. Il movimento dei Talebani propugna una visione molto radicale dell’Islam, che associa alcune dottrine dell’ordine sufi Deobandi, della corrente salafita e tradizioni sociali Pashtun. Il movimento è anche identificato per la maggior parte con il gruppo etnico Pashtun (che è anche una delle due lingue ufficiali dell’Afghanistan assieme al Dari, la versione afghana del persiano) – non tutte le regioni sono bilingui e quando i Talebani hanno esteso il controllo a tutto il Paese, più di metà della popolazione afghana non li capiva.

Gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan perché dava rifugio a Bin Laden, dopo quasi 18 anni di presenza militare di America ed Europa con grande investimento anche dell’Italia (che ha giocato un ruolo centrale nella ricostruzione del sistema giuridico afghano), l’Afghanistan ancora non è riappacificato e sempre sull’orlo di una guerra civile.

I Talebani non apprezzano i cambiamenti politici e anche chi non si identifica con i Talebani li appoggia nell’opposizione ai cambiamenti sociali e continuano ad attaccare simboli stranieri, del governo attuale e della modernizzazione (come l’attentato alla troupe della Tv Tolo, che trasmette diversi programmi compreso “Afghan Star”, in cui donne e uomini cantano insieme), e altre trasmissioni colpevoli di tentare i giovani alla modernità e a ciò che è considerata promiscuità. I Talebani non riconoscono il governo né l’autorità degli Stati Uniti, con cui hanno rifiutato di parlare perché i negoziati sarebbero avvenuti negli Emirati, per poi accettare la settimana scorsa una serie di incontri in Qatar, durante le negoziazioni, il 21 gennaio un attentato alle forze di sicurezza afghane nella Provincia centro-orientale di Wardak ha fatto 20 vittime.

Due settimane fa il Presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani ha accusato i Talebani di aver ucciso almeno 45.000 afghani negli ultimi quattro anni, cioè da quando è stato eletto presidente. Il tentativo di unire i diversi gruppi etnici, culturali e tribali attraverso il sentimento nazionale non è un esperimento, perché l’Afghanistan è un’unione di popoli dalla fine del XVIII secolo. Accusare un gruppo di uccidere afghani è una mossa politica che vuole indebolire il consenso e le alleanze ideologiche o locali con qualsiasi organizzazione percepita come nemica della nazione.

Eppure, non si sa quale sarà il futuro dell’Afghanistan dopo un probabile patto con i Talebani, che vorrebbe dire forse una fine agli attacchi, ma prospettive negative per altri campi, benché l’inviato speciale Usa James Dobbins sia ottimista. L’ex ambasciatore Usa in Afghanistan, Ryan Crocker ha pubblicato sul Washington Post un articolo di critica alla politica di Trump, equiparando l’accordo con i Talebani all’accordo di “resa” sul Vietnam, che per effetto avrebbe la delegittimazione dell’attuale governo.

A dubitare dell’accordo sono di sicuro le donne, che le tradizioni locali hanno sempre discriminato e contro le quali il regime dei Talebani ha dichiarato guerra, e i modernisti, che lottano per il cambiamento della società afghana. Gli Usa vogliono progressivamente ritirarsi da ogni fronte di conflitto (non solo Trump, anche Obama era dello stesso avviso) e l’Afghanistan rappresenta un nuovo Vietnam cui qualcuno deve mettere fine senza una resa (almeno non per la stampa) e i suoi alleati sono disposti a seguire. Un accordo con i Talebani sulla base della minaccia “se colpiranno ancora li distruggeremo” dà poche rassicurazioni al governo attuale, che guarda oltre, in particolare alla Cina, alla Russia, e all’India potenze che vogliono maggiore influenza nell’area e che hanno diversi interessi in Afghanistan.

La Cina confina con l’Afghanistan e ha un problema con l’estremismo, in più vuole investire nei Paesi vicini creando un cuscinetto di alleanze, che incomincia con gli accordi di cooperazione con il Pakistan anche in campo energetico e con i nuovi mercati, pur piccoli, degli “Stani”. L’India ha un rapporto storico con l’Afghanistan, da dove sono provenuti governanti musulmani nei secoli e verso cui i giovani afghani fuggono per vivere una vita più libera e tranquilla. L’India è anche il Paese più importante per l’economia afghana, il rafforzamento dell’asse Kabul-New Delhi allerta il Pakistan, che pur di indebolire un’alleanza che lo troverebbe schiacciato tra due nemici, sarebbe disposto a continuare a finanziare i talebani che pur destabilizzano Islamabad. Questi Stati non sono molto interessati a investire in progetti di democratizzazione o diritti umani, che sarebbe l’Europa sola a mantenere in futuro.

La Russia intanto si è già mossa ed ha annunciato un summit per il 5 febbraio, dove si discuterà di una boicottato dal governo afghano che si appoggia agli Stati Uniti, mentre altri partiti aderiranno come Hezb-e Islami, il partito islamico di orientamento islamista. Il vuoto degli Stati Uniti è colmato da Mosca, che vede nell’Afghanistan un Paese quasi confinante e un probabile terreno fertile per jihadisti che hanno già colpito il territorio russo in passato. I Paesi che confinano con l’Afghanistan e che erano parte dell’Unione Sovietica (Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan) rimangono sotto influenza russa e dalla loro indipendenza lottano contro l’estremismo religioso – senza le limitazioni degli Stati di diritto.

Al summit parteciperanno anche rappresentanti dei Talebani, che si incontreranno nuovamente con gli Stati Uniti questo mese. Il membro della delegazione talebana Abbas Staakenzai ha già annunciato lo smantellamento dell’esercito afghano dopo la caduta dell’attuale governo. Mosca pare star preparando un nuovo Afghanistan con una coalizione di islamisti, islamici moderati e talebani.

Il caso dell’Afghanistan sarà un terreno di prova per nuovi scenari. Le fragili istituzioni, indebolite da corruzione, divisioni etniche, e mancanza di rappresentatività, reggeranno a una probabile offensiva talebana le cui milizie controllano già parte del Paese e che potrebbero confluire nell’esercito regolare in un accordo con i partiti islamisti? Continueranno con gli attacchi agli infedeli stranieri su territorio afghano?

La presenza militare tedesca non dovrebbe esser più in discussione, mentre quella italiana pare essere in dubbio, ed entrambi gli eserciti sono considerati infedeli invasori dai fondamentalisti. In questo caso, come intenderebbero gli Stati Uniti distruggere i talebani? L’Europa continuerà a finanziare progetti diretti alla democratizzazione se il Paese sarà influenzato e alleato di potenze che non condividono né sono interessate a un futuro di “valori condivisi”?

E soprattutto quale sarà il destino dei numerosi progetti che hanno poco a poco sostenuto un parziale cambiamento di una società che in 40 anni di guerre e guerre civili ha dimenticato che fino agli anni ’70 le donne andavano all’università (almeno quelle della borghesia illuminata e tradizionalista), le industrie si stavano diffondendo e un primo dialogo sociale introduceva la discussione sulle divisioni etniche?

E se non dovesse reggere un accordo, invece, l’Afghanistan sarebbe nuovamente lacerato da una guerra civile con fazioni etniche in lotta? In questo caso chi farà fronte ai possibili nuovi spostamenti di popolazione e alle conseguenti crisi umanitarie? Ma soprattutto, che conseguenze si prospettano se larghe parti di territorio saranno nuovamente date in cessione all’addestramento e alla logistica di gruppi terroristici da tutto il mondo?

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