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Siria e Afghanistan, perché i repubblicani hanno votato contro Trump sul ritiro

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Il Senato degli Stati Uniti ha votato ieri un emendamento contro il ritiro delle truppe da Siria e Afghanistan. La postilla, inserita in un’ampia legge sul Medio Oriente che sarà votata senza problemi la prossima settimana, ha ottenuto una maggioranza netta: 68 favorevoli e 23 contrari, e questo significa che almeno ventuno membri della maggioranza repubblicana hanno votato a favore dell’emendamento (dando per scontato che i democratici, già partiti verso le presidenziali del 2020, siano andati compatti).

I numeri da soli non rendono l’idea, e dunque: quanto successo significa che circa due terzi dei senatori repubblicani sono apertamente andati contro un direttiva dall’assoluto sapore politico del loro presidente, che vuole i soldati fuori dalla Siria (dove la missione contro l’IS sta finendo, dice lui, ma non sembra tanto vero visto che sta cercando di coinvolgere altri partner da mettere gli stivali sul terreno) e dall’Afghanistan (dove s’è raggiunto un quadro generale per un accordo con i Talebani che però non sembra dare enormi garanzie, almeno al momento).

Comunque la si vede, il voto è una sfida aperta a Donald Trump e alla sua politica estera, che arriva a circa un mese da un’altra decisione analoga, cioè quando 56 senatori votarono a favore di una risoluzione per imporre al presidente un passaggio congressuale prima di dare sostegno diretto all’impegno militare saudita contro i ribelli in Yemen; o ancora, quando una settimana fa i congressisti hanno votato uniti una risoluzione per impedire che la Casa Bianca, con qualche colpo di testa, potesse decidere autonomamente di uscire dalla Nato.

Il testo dell’emendamento di ieri era semplice e diretto, e forse anche per questo ha ricevuto ampio sostegno. C’era scritto che i gruppi terroristici come lo Stato islamico e al Qaeda rappresentano ancora una minaccia per gli Stati Uniti e che ritirarsi da Siria e Afghanistan in modo precipitoso potrebbe creare problemi.

Il valore del documento però è ancora superiore se si considera che a proporlo è stato il leader del Partito Repubblicano, Mitch McConnell. Il capo della maggioranza al Senato è un politico storico, passo deciso e voce sicura, che ultimamente seguiva la presidenza, ma che in passato ha già avuto problemi di divergenza con Trump. McConnell ha il compito (ingrato in questo periodo) di tenere unito il partito davanti a una Casa Bianca che spesso diventa incomprensibile agli occhi dei politici di cui dovrebbe essere emanazione, abituati a punti di riferimento classici che invece con Trump stanno via via facendo saltare (i sostenitori considerano questo aspetto per certi versi rivoluzionario una forza del presidente).

Uno di questi, per esempio, è il rapporto con le intelligence. Tre giorni fa, sempre al Senato, s’è consumato uno di quei momenti il passo di questa fase storica – e che i congressisti repubblicani faticano a digerire. I tre capi delle principali agenzie di servizi segreti statunitensi hanno presentato alla Commissione Intelligence della camera alta un rapporto annuale che è di solito poco più che una formalità, visto che analizza minacce piuttosto note e conosciute. Ma stavolta il report contraddiceva anche quello alcune linee programmatiche di Trump: l’Iran è uno stato carogna ma non viola il Nuke Deal, la Corea del Nord non è interessata alla denuclearizzazione totale, i baghdadisti sono ancora una minaccia, diceva tra le varie cose.

Sarebbe già un’anomalia che le agenzie di intelligence smentiscano così pubblicamente il presidente, ma come se non bastasse Trump ha sganciato un paio di tweet contro i suoi servizi segreti definendoli degli “ingenui” che “dovrebbero tornare a scuola” – poi ieri, in serata, ha aggiunto di aver avuto una riunione col suo Intel Team, di essere pienamente in sintonia, e che tutte le polemiche erano frutto di un’errata interpretazione dei media.

Come può interpretare certe situazioni una senatore repubblicano che vive la politica statunitense da anni, e che magari ha recentemente visto uscire dal suo collegio le critiche per la crisi trumpiana che ha imposto lo shutdown, e che ha visto Trump e il suo partito perdere il controllo della Camera alle Midterms, e che vede i Democratici sulla piattaforma di lancio grazie a un unico materiale aggregante sull’elettorato, ossia l’anti-trumpismo?

(Foto: Flickr, Mitch McConnell)

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