Il voto in Sardegna è il risultato di una integrazione tra le specificità socioeconomiche e culturali dell’isola e i temi di livello nazionale. Le proposte di zona franca, di investimenti per lo sviluppo e il lavoro, di incremento dei trasporti con il continente, sono state valutate dai cittadini sardi insieme alle posizioni dei partiti e delle coalizioni sui temi di interesse nazionale, in una sintesi politica che rappresenta un utile riferimento per comprendere le dinamiche in atto.
La campagna elettorale del centrodestra ha fatto leva sulle questioni locali ma si è avvalsa anche dei punti di forza a livello nazionale: immigrazione e sicurezza; sostegno alle imprese come volano dell’economia e dell’occupazione; diminuzione della pressione fiscale; tutela delle imprese nel contesto europeo. Ed è stata premiata. I 5 Stelle non hanno avanzato efficaci proposte sul piano regionale e hanno reiterato le loro tematiche: lotta per il cambiamento; sfavore verso le grandi opere; sostegno alla presenza pubblica in economia; reddito di cittadinanza come soluzione del disagio sociale.
E sono stati puniti. Le sinistre si sono avvantaggiate di un candidato radicato sul territorio e di liste locali, calandosi nel concreto dei problemi dell’isola; nel contempo hanno riproposto le posizioni nazionali europeiste, aperturiste sull’immigrazione, favorevoli alle grandi opere e a una politica di investimenti pubblici e privati. E hanno recuperato posizioni.
Si possono trarre delle indicazioni di massima. La maggioranza degli elettori è a favore della linea del centrodestra su immigrazione, sicurezza e crescita. Il voto “contro” degli elettori 5 Stelle nel 2018 aveva una motivazione prevalentemente emotiva e, alla prova dei voti regionali, risulta carente di solide basi politiche ed esposto a lacerazioni tra tendenze istituzionali e movimentiste, di sinistra e moderate. Le sinistre, sconfitte nelle ultime elezioni nazionali, possono ricostituire un rapporto con il loro elettorato naturale, recuperando voti moderati sul tema immigrazione, intercettando il disagio sociale e insistendo su una politica economica centrata sullo sviluppo e sull’europeismo; ma a condizione di consolidare una leadership interna coesa e aperta alle realtà progressiste esterne al Pd.
Se l’analisi è giusta e se il voto europeo confermerà le tendenze, il governo gialloverde, nonostante i sondaggi a favore, non ha maggioranza politica e, di fronte alle sfide economiche dei prossimi mesi, è destinato a cedere il passo. A meno che i 5 Stelle, di fronte al rischio di elezioni anticipate e della conseguente perdita di gran parte dei parlamentari, cambino radicalmente linea di governo ovvero operino una scissione che lasci al governo la componente moderata e releghi all’opposizione la parte movimentista; o che il centrodestra riesca a trovare un congruo numero di “responsabili” per sostenere un nuovo governo di legislatura.
Al di fuori di tali improbabili ipotesi, l’unica alternativa di governo, nell’attuale Parlamento, è quella di un accordo tra 5 Stelle e nuovo Pd: un esecutivo giallorosso che potrebbe avere i numeri per formarsi, sulla base di una rimodulazione aperturista della politica migratoria, un’espansione dello Stato imprenditore, un incremento dell’assistenzialismo pubblico; un esecutivo che però indebolirebbe le possibilità di rilancio dell’economia e si scontrerebbe sui temi delle grandi opere, dell’Europa, della politica estera, della giustizia; un esecutivo che, soprattutto, andrebbe contro la chiara volontà politica degli elettori. In definitiva, la rappresentanza parlamentare stenta a produrre governi stabili e si discosta progressivamente dal consenso elettorale, aprendo la strada a elezioni anticipate.