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Quel museo che racconta il legame tra Italia e Francia

Per fortuna che c’è la memoria. Il tempo. La montagna. Se uno volesse toccare con mano l’amicizia tra italiani e francesi, mai come oggi messa in discussione, non deve solo rifarsi alle guerre del Risorgimento o alle origine del nostro tricolore. Ha da salire in cima alla Marmolada. Lì, a tremila metri, nella Zona Monumentale Sacra di Serauta, incastonato in un affaccio unico per i segreti che conserva nelle sue viscere, è conservato un oggetto che è molto più di un cimelio. Il turista con gli sci lo apprende visitando il Museo della Grande Guerra, il più alto del mondo, come recitano i documenti dei sette comuni dell’agordino fieramente rialzatisi dopo la devastante alluvione dell’autunno scorso che ha abbattuto 600.000 alberi, militi in trincea colpiti da una granata di acqua e vento.

Ebbene lì, dove si incrociano lamine al posto di bombe e moschetti, è conservato uno dei tanti esemplari di elmetto dell’esercito italiano. Tutto meno che italiano. Ce lo donarono i francesi, gli eterni rivali, appena entrammo in guerra al loro fianco; tant’è vero che la scocca con la spina al centro è la stessa che indossarono i compagni transalpini, nostri alleati. Pensateci, in pochi ci fanno caso. A quel tempo eravamo del tutto inadeguati, anche se molti, ad esempio un artista come Boccioni (che addirittura perse la vita come volontario) e tanti altri, che oggi definiremmo élites, furono entusiasti del brivido bellico. Il popolo visse ben altra storia e destino. Le milizie del Regno si presentarono nel 1915 su quei monti in divisa estiva, direttamente recapitate dalla Libia e indossavano un berretto buono forse per il deserto ma non certo per il gelo dei monti. Impressiona vedere la differenza tra le dotazioni nostre e quelle dell’esercito di Vienna. Almeno per il capo, spesso obiettivo dei cecchini, ci salvò dunque Parigi, quella che oggi vorremmo bruciasse con tutta la sua grandeur in crisi. I nostri avi in trincea si ripararono così.

Seguirono anni terribili, la guerra su quelle cime tra il Veneto e l’Austria si combatté soprattutto contro il gelo, tanto che le truppe di Francesco Giuseppe arrivarono a costruire proprio sotto la Marmolada una città di ghiaccio per sfuggire al freddo siberiano e all’assurdità di un conflitto che spesso aveva messo contro pezzi di famiglie divise dal reclutamento forzoso ma unite dal destino comune, da una foto ingiallita, da un giorno di festa, da una bevuta al bar. La mostra, spezzata da vetrate affacciate su Sasso Lungo, Sasso Piatto, gruppo del Sella, Falzarego, Cristallo e scusate per le altre non citate, è giustamente intitolata al soldato. E basta. Non importa se fosse italiano, austriaco-ungarico o francese.

Napoleone, un altro francese, pur nella sua mania di grandezza, decretò, sull’onda di Victor Hugo: la guerra in Europa è una guerra civile. Il museo coglie proprio quello spirito che dovremmo ricordarci ora che tornano le frontiere, le diatribe sui migranti, il colonialismo, i gilet gialli. Importa la vita del soldato dentro la guerra, i tavolacci dove mangiava, le forchette e gli scaldini dove cercava ristoro, le barelle sagomate, antenate del toboga, che riportavano a valle spesso mummie senz’anima, le piastrine dei vaccini che descrivevano la vita o la morte di individuo e non un’insana diatriba sulla loro utilità. A ragione i curatori del Museo – inserito nel progetto Dolomiti Maadness – hanno messo all’ingresso una foto dei due monarchi con relative bandiere, senza alcuna preferenza, prive di commento. Quella cima è in Italia, in Europa, un posto di tutti e per tutti.

In poche decine di metri di reperti, mappe e armi arrugginite, si celebra l’amicizia che lasciò il passo alla guerra, quella che dovremmo sempre coltivare noi paesi fondatori. Lassù viene in mente il diverso approccio usato a Budapest, dove ad esempio una mostra sulle case regnanti e la Grande Guerra è annunciata da quattro enormi statue di soldati come se fossero le sentinelle del gruppo di Visegrad. Da noi, nostalgia e monumento alla condivisione dei valori che ci uniscono dal 1957. In Ungheria, la celebrazione delle virtù solitarie di chi vorrebbe in fondo il ritorno delle frontiere. Due modi di interpretare il presente che sono poi il dramma quotidiano dell’Unione Europea. Se vuoi la pace federa gli Stati, ammoniva Kant. Se vogliamo mantenerla ricordiamo nel presente quello che ci ha diviso e ciò che ci unisce. Quel viaggio in funivia serve anche a questo. Un biglietto per la storia che non si deve dimenticare.



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