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Il Sud e quella cultura del piagnisteo

Forse è stata infelice l’esortazione del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti: “Al sud dico: non servono più fondi, ma dovete impegnarvi di più. Più sacrificio, più lavoro, più impegno. Vi dovete impegnare forte”. Ma nasconde una verità che è quella di ritenere che tutte le responsabilità e le colpe dell’arretratezza del sud siano sempre di altri.

Se le cose vanno male, – ha scritto Luca Ricolfi sul Il Sole 24 Ore – è sempre colpa di qualcun altro: la storia, l’unità d’Italia, i piemontesi e l’occupazione, l’Europa, il nord e il governo centrale. La politica nazionale ha ovviamente le sue responsabilità, prime fra tutte quella di non aver dotato il sud di una rete di infrastrutture decente, il mancato controllo del territorio ecc., ma si dimenticano le gravissime responsabilità delle classi dirigenti locali, sulla connivenza che la gente del sud ha nei confronti delle proprie classi dirigenti. Se il resto del Paese è più ordinato del Mezzogiorno, se gli sprechi della Pubblica amministrazione sono più contenuti, ci sarà pure un motivo.

Ormai 35 anni fa Manlio Rossi Doria concludeva uno scritto sui cent’anni di questione meridionale con le seguenti parole. “Non vi è dubbio che nelle caratteristiche di una larga parte delle classi dirigenti meridionali vada ancora oggi individuato, a distanza di un secolo da quando per la prima volta se ne parlò, uno dei nodi più gravi e decisivi della ‘questione meridionale'” (M.R. Doria, “Scritti sul Mezzogiorno”, L’ancora del Mediterraneo, 2003, p. 222.).

Chi scrive, da sempre sostenitore della causa del Mezzogiorno, difensore della storia meridionale soprattutto preunitaria e borbonica, tanto da essere gratificato dalla Casa Borbone con l’ordine cavalleresco costantiniano di San Giorgio, condivide da sempre questa analisi. Aver da decenni attribuito le cause dei mali del sud a fattori esterni e a forze estranee alla società ed alla storia meridionale non solo ha contribuito a deresponsabilizzare le classi dirigenti e la politica, ma ha creato in ceti sociali (la borghesia in particolare), che avrebbero dovuto rappresentare e costituire l’ossatura della struttura istituzionale, amministrativa e burocratica dello Stato e degli enti locali, una mentalità diffusasi poi in tutta la popolazione secondo la quale tutto è dovuto e niente si deve fare per cambiare la situazione. “Cosi è diventato preponderante il concetto del posto pubblico come vademecum di tutti i problemi” (cf. Rapporto Unimpresa).

“Non c’è dubbio, dunque, che il problema è innanzitutto nelle istituzioni, prima ancora che sul versante economico: la classe dirigente del sud è stata orientata a una ricerca clientelare e assistenziale del consenso, che ha solo drenato risorse e i governi nazionali lo hanno tollerato in cambio di voti”, come dichiarò Carlo Triglia, professore di Sociologia economica a Firenze, già ministro per la Coesione territoriale nel governo Letta. Il ruolo perciò delle istituzioni pubbliche è cruciale.
Nel sud, anche per ragioni storiche, si è affermato e aggravato un modello di potere predatorio. Proprio per questo siamo obbligati a dar ragione persino a Matteo Renzi quando anni fa diceva alla direzione del Pd, convocata per affrontare l’emergenza sud dopo i dati del rapporto Svimez: “Se il sud è in difficoltà non è colpa di chi lo avrebbe abbandonato. La retorica del sud abbandonato è autoassolutoria. L’autoassoluzione è un elemento che concorre alla crisi del Mezzogiorno”.

A suffragare questa tesi c’è anche il saggio: “Chi ha cancellato la questione meridionale?” per i tipi di Rubbettino, i cui autori Mariano D’Antonio, Matteo Marini, Sonia Scognamiglio, Annalisa Marini, Antonio Russo, Lucia Cavola, Achille Flora, Giovanni Laino, Francesco Pastore, Sara Gaudino, Giuseppe Leonello, Roberto Celentano, hanno individuato la causa dei mali del sud, proprio negli stessi meridionali, in particolare nella loro scarsa attitudine a rispettare le regole, nella scarsa fiducia reciproca, nel sospetto e invidia sociale, nel familismo amorale e poi nell’evasione fiscale e contributiva, nell’assenteismo per malattia, nell’inflazione dei diplomi e delle lauree, nel mancato pagamento delle tariffe del trasporto pubblico locale.

“Lo scarso senso civico – scriveva D’Antonio – è effetto e al tempo stesso concausa dell’insufficiente sviluppo: la povertà spinge a violare le regole, l’illegalità a sua volta ostacola la riduzione della povertà”. Di qui i reati segnalati dalla Corte dei conti, la corruzione è al 42% del totale nazionale, la concussione al 53%, l’abuso d’ufficio arriva al 62%.

A queste miriadi di difetti o, quantomeno di mancanze di qualità etiche, civiche e sociali si aggiunge un fattore che, oltre al clientelismo, la corruzione, il diffuso basso livello d’istruzione, è “la cultura del piagnisteo”, con la tendenza d’addebitare tutti i guai del Mezzogiorno all’azione di forze esterne.

Ed allora si inizi ad operare sul territorio interessato, introducendo subito criteri rigorosi di gestione negli enti pubblici; si restituiscano la sanità e tutti gli organismi attualmente preda dei partiti a tecnici ed a professionisti preparati; si eliminino e sottraggano le varie società municipalizzate alle clientele politiche; si rendano efficienti e produttivi gli istituti preposti alla formazione delle risorse umane; si attivi la collaborazione con le associazioni di categoria delle imprese.

Bisognerà però partire prima di tutto dalla moralizzazione della vita amministrativa locale, che dovrà essere sottratta alle attuali infiltrazioni malavitose e liberata dalle lottizzazioni partitiche e clientelari. In breve la bonifica del territorio dovrà accompagnarsi alla bonifica morale.

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