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L’inconsistente leggerezza dell’analisi costi-benefici sulla Tav

Com’era prevedibile, la pubblicazione dell’analisi costi-benefici relativa ai lavori della Tav non ha risolto alcun problema. Ma dato alimento a nuove polemiche. Per una fortuita coincidenza la sua diffusione è coincisa con l’allarme smog in quasi tutto il quadrante nord della Penisola. Che il ministro Danilo Toninelli faccia, quindi pace, con il suo collega Sergio Costa, quello delle trivelle congelate per difendere l’ambiente. Ed insieme decidano il da farsi.

Sarà anche vero che l’Erario ci guadagna sugli automobilisti – come indicato nella relazione – dato il carico di imposte che grava sul diesel e la benzina. Ma quale sono gli effetti di quell’eccesso di consumi sul quadro macroeconomico complessivo? La dipendenza italiana dall’estero non è forse quella palla al piede che condiziona enormemente i ritmi di sviluppo del Paese? Se dobbiamo consumare, per aiutare Giovanni Tria a far quadrare i conti, meglio sarebbe, allora, produrre sul territorio italiano quel che ci manca e non ricorrere alle gravose importazioni dai Paesi dell’Opec.

Se poi vogliamo strafare, meglio chiudere la Tav tra Napoli e Milano. Milioni di automobilisti in fila sull’Autostrada del sole, sono la migliore garanzia per ottenere il sospirato ristoro finanziario. Potremmo continuare. Ma non serve. E non è questa la sola delusione che deriva dalla difficile lettura di quell’ottantina di pagine. A proposito che significa “VANE”, la sigla che ricorre più volte, senza spiegazione alcuna? Sarà che siamo abituati alla Relazioni tecniche che accompagnano ogni provvedimento di legge. Alla tabella riassuntiva finale, in cui sono elencate, in bell’ordine, le cifre delle ipotesi quantitative. Che invece manca nel quadro conclusivo dell’analisi dei tecnici del Ministero delle infrastrutture. Si tirano allora, empiricamente, le somme, ma i risultati non tornano.

Se i vantaggi dal traffico passeggeri sono pari a 1,3 miliardi e l’effetto negativo delle merci è di 463 milioni, la Vane – presumiamo la valutazione netta – è di 837 milioni e non a 885, come indicato. Quisquiglie. Ma il caso diventa rilevante quando si tratta di valutare i “costi attualizzati di investimento ‘a finire’”. Termine tratto dalla relazione. Si riferiscono all’intera tratta? Compresi i lavori a carico dei francesi? Si è tenuto conto dei contributi europei, pari a circa il 40 per cento del costo dell’opera? Non è dato da sapere. Si pensa forse di utilizzare quelle risorse per altri obiettivi? Impossibile, date le attuali regole. I contributi sono erogati per le opere ammesse a contributo e non a discrezione del beneficiario. Ecco allora l’importanza di quella tabella di sintesi, non prodotta.

Ma lasciamo perdere i numeri, per affrontare il limite vero di questo approccio. L’analisi si concentra su un segmento minimo di un’opera gigantesca destinata a congiungere Lisbona con Kiev, con un’ulteriore diramazione verso Algeciras. Un percorso che dovrebbe raggiungere la lunghezza di circa 2000 chilometri, di cui la tratta Torino – Lione è una minuscola percentuale, che non supera il 10% del totale. Se analisi costi-benefici deve essere, allora il suo orizzonte vero dovrebbe avere questa scala. E non la dimensione angusta di un piccolo segmento. Tanto più che le proiezioni sono al 2059. Anno in cui, come osservava Keynes, molti di noi saranno morti. A dimostrazione di quanto sia difficile ottenere valutazioni attendibili.

Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Italia decise ch’era giunto il momento di partecipare alla liberalizzazione degli scambi. Fu una decisione politica non semplice. Il vecchio blocco agrario-industriale, che aveva supportato le politiche protezionistiche del regime fascista, era ancora agguerrito. Preferiva la chiusura delle frontiere. La stessa Confindustria, guidata da Angela Costa era paralizzata, nel conflitto che divideva le industrie più tradizionali da quelle oriented export. La scelta (giusta) fu tutta politica. Rispondente, cioè, ai canoni istitutivi di quest’attività: l’andare oltre la semplice amministrazione, per raccordarsi con i grandi orientamenti culturali del proprio tempo storico.

L’esatto contrario di quanto i 5 Stelle, oggi, propongono. Sul piano tecnico, l’eventuale rinuncia ripropone il tema dell’isolamento dell’Italia, rinverdendo vecchie posizioni da “strapaese”, che furono una corrente minoritaria dello stesso fascismo: è come tentare di innescare una ferrovia a scartamento ridotto in una rete ad alta tecnologia. Con standard qualitativi incompatibili. Su un tratto di circa 200 chilometri dovremmo interrompere il relativo traffico. Trasbordare le merci, visto che i grandi Tir non possono essere direttamente collocati sui treni, non essendo la loro sagoma compatibile con la dimensione dei tunnel esistenti, per poi effettuare l’operazione inversa, con destinazione Milano, Venezia e quindi Lubiana, fino a Budapest e Kiev. Ed è evidente che, una simile strozzatura farebbe venir meno ogni possibile vantaggio per l’intera rete.

Allora, al resto dell’Europa non rimarrebbe altro che rimodulare l’intero progetto. Saltare direttamente la tappa italiana per spostare il tracciato a nord delle Alpi. Era una vecchia idea di Karel Van Miert e di Ignacia de Loyola de Palacio: entrambi commissari europei ai trasporti, prima del duro confronto con la delegazione italiana, che alla fine ottenne la necessaria deviazione. L’atout vincente fu la considerazione che in quel territorio, si concentrava il 29,8 delle importazioni italiane e il 39,5 delle relative esportazioni. Ma era il 2011, quando l’economia italiana viaggiava soprattutto grazie alla dinamica della sua domanda interna, mentre il deficit della bilancia commerciale superava il 3 per cento del Pil. Oggi, che tutto è cambiato, quei valori sono per lo meno raddoppiati ed il surplus cumulato delle partite correnti della bilancia dei pagamenti è quasi equivalente alla crescita che si è verificata nei valori del suo debito pubblico.

Le conseguenze di un simile ripensamento non dovrebbero garantire sonni tranquilli, specie se si considerano i legami del Nord est con la sua frontiera orientale. Centinaia di piccole e medie aziende, oggi parti integranti di quelle catene del valore, che rappresentano il cuore del commercio internazionale, verrebbero penalizzate da una logistica inadeguata. Poste al margine delle grandi correnti di traffico. Senza contare il contenzioso che nascerebbe, con gli altri partner europei. A partire dalla Slovenia, ed i suoi più stretti alleati (Austria e Germania), visto che il nuovo tracciato difficilmente potrebbe continuare ad includere Lubiana.

Queste sono le domande a cui l’analisi prodotta non dà risposte. Si spacca il capello in quattro, nel tentativo di valutare ciò che accadrà tra quarant’anni. Auguri. Ma non si colgono le implicazioni connesse con la geopolitica più immediata, come se l’eventuale ripensamento di un’opera, inserita in un Trattato internazionale, solennemente approvato dai rispettivi parlamenti, potesse essere considerata alla stregua di un piccolo contenzioso tra le società incaricate dell’esecuzione dei lavori. E dar luogo solo ad eventuali risarcimenti. Un approccio talmente riduttivo da risultare inconsistente. Matteo Salvini si è preso il tempo necessario per valutare il tutto. Lo faccia. Ma guardi soprattutto alla foresta e non al singolo albero, ritratto in quella sfocata fotografia.

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