Il satrapo nordcoreano Kim Jong-un è arrivato in Vietnam, ad Hanoi, dove domani e dopodomani, incontrerà il presidente americano, Donald Trump, per il secondo meeting nel giro di meno di un anno (il primo, storico faccia a faccia c’è stato a giugno, a Singapore). La copertura media è totale, si tratta di un passaggio diplomatico centrale, che segna già il calendario degli eventi del 2019.
Per questo Kim è stato seguito costantemente durante il suo viaggio di 4023 chilometri in treno (simbolica la scelta del mezzo per lo spostamento, che ricorda il nonno, il padre della patria, con cui Kim non perde occasione di marcare le somiglianze, anche fisiche). Ci sono immagini del nordcoreano che fuma una sigaretta durante uno scalo cinese – e la sorella, la super-influente Kim Yo-jong, che gli porta un posacenere di cristallo – e del suo arrivo nella capitale vietnamita, con la Maybach blindata (che la casa tedesca nega da sempre di avergli venduto direttamente) scortata da uomini dei servizi di corsa – li chiamano “i maratoneti”.
E poi lo staff: ieri sono circolate le foto di un grande aereo cargo nordcoreano arrivato ad Hanoi pieno di personale; diplomatici e negoziatori, ma soprattutto agenti speciali, cecchini, guardie del corpo (anche quello del Nord, come tutti i regimi, è maniaco della sicurezza).
Duecento uomini del Secret Service stanno accompagnando anche Trump, perché ovviamente nulla va lasciato al caso, visto la sensibilità della situazione. Il presidente americano è sbarcato dall’Air Force One nei minuti della stesura di questo pezzo.
Donald Trump @realDonaldTrump stepped off Air Force One at Hanoi International Airport, Vietnam on Tuesday for the summit with North Korean leader Kim Jong-un. (Photos: Li Hao/GT) #TrumpKimSummit pic.twitter.com/3bfs5E6sXh
— Global Times (@globaltimesnews) 26 febbraio 2019
Il vertice è molto atteso, ma in generale c’è scetticismo sulla possibilità che possa portare a risultati sul campo della denuclearizzazione nordcoreana, che è l’obiettivo finale che ha messo in moto il processo negoziale avviato più o meno un anno fa dal presidente sudcoreano Moon Jae-in, che ha poi raggiunto l’apice con l’incontro Trump-Kim di Singapore. Da giugno infatti, dopo che il vertice tra leader si chiuse con dichiarazioni di intenti astratte, i colloqui sono proseguiti, ma non hanno portato a risultati concreti.
La Corea del Nord ha effettivamente interrotto la serie di test missilistici e atomici che aveva caratterizzato il 2017 (quando il satrapo nordcoreano non era un leader con cui negoziare e per cui auspicare una crescita “a razzo dell’economia”, ma Trump lo chiamava “Little Rocket Man” con disprezzo), e Kim ha frenato la retorica smaccatamente anti-americana. Dal 28 novembre del 2017, quando testò un Hwasong-15, vettore balistico intercontinentale in grado di trasportare una testata almeno fino alla California, ma forse anche Washington, tutto si è praticamente fermato sul fronte più aggressivo delle relazioni.
E via via sono diminuite anche le immagini propagandistiche del Maresciallo in abiti militari, quelli con cui andava a far visita a basi e nuovi sistemi, e mandava un messaggio di forza all’interno e all’estero. Anzi, il 24 maggio del 2018 la stampa internazionale è stata invitata per far la cronaca dello smantellamento del sito di Punggye-ri, che ha ospitato diversi di quei test atomici – l’operazione che il regime ha fatto passare come una prova della propria lealtà in vista del meeting con Trump, era però prevista da tempo, perché il sito era ormai inutilizzabili.
Secondo alcune informazioni, l’americano e il nordcoreano potrebbero trovare ad Hanoi la via per chiudere definitivamente lo stato di guerra formale tra i due paesi, che prosegue dall’intervento statunitense a sostegno della Corea del Sud durante la guerra che per tre anni ha flagellato la penisola e che si è fermata con una tregua nel 1953 – da quel momento Pyongyang ha fondato il suo spirito nazionale sull’anti-americanismo e ha sempre sostenuto che costruire armamenti atomici fosse l’unico modo per costruirsi un’adeguata deterrenza contro la presenza statunitense al Sud.
Al momento la sostanza della situazione è questa: gli Stati Uniti chiedono al Nord una lista completa dei siti e dei soggetti coinvolti nel programma nucleare; la Corea del Nord ha fornito delle indicazioni di massima, ma ha omesso diversi impianti (pubblicamente scoperti da alcuni report analitici del Csis che hanno ricevuto conferma dalle intelligence americane e sudcoreana: lo sapevamo già dicono i servizi alleati). Pyongyang chiede garanzie, e “garanzie” significa che vuol vedere gli Stati Uniti lavorare sulle sanzioni che stanno strozzando il paese tanto quanto Washington indietreggiare sulla presenza regionale, che Kim considera una questione che può anche mettere a rischio la stabilità – pure interna – del suo regime.
L’amministrazione Trump ha già detto che quelle misure restrittive di carattere onusiano – passate dal Consiglio di Sicurezza – per il momento non si toccano, ma forse (e qui sarà il risultato del vertice tra i due leader a smuovere le acque) si potrebbe pensare a un alleggerimento del contingente americano schierato al Sud, e allo stop delle esercitazioni congiunte con Seul, come segnale di apertura.
Il punto di non-contatto è sostanzialmente ancora quello emerso dal vertice di Singapore: non c’è accordo tra Washington e Pyongyang su cosa definire “denuclearizzazione”. Per gli americani è l’eliminazione “completa verificata, irreversibile” del programma atomico militare del Nord secondo il “modello Libia”, come qualche tempo fa spiegava il falco che guida il Consiglio di Sicurezza nazionale trumpiano, John Bolton. Per il regime di Kim – che aveva criticato Bolton perché quel modello citato aveva portato il rais Gheddafi a morire in una fogna – il denuke è qualcosa di più simile a un “controllo degli armamenti” inteso nel senso ampio del diritto internazionale (implicito un qualche riconoscimento dello status di potenza nucleare, effettivamente raggiunto dal Nord).
Su questo secondo aspetto, Trump ha un approccio più pragmatico di elementi come Bolton e forse potrebbe accettare qualcosa in più in cambio di un qualche accordo. Come ricorda il Corriere della Sera (l’inviato in Cina, Guido Santevecchi, è ad Hanoi e sta seguendo vertice e preparativi), un agente della Cia ha rivelato che Kim avrebbe detto al segretario di Stato, Mike Pompeo: “Sono un padre di famiglia, non voglio che i miei figli crescano con l’incubo nucleare”. Parole che porterebbero anche Kim, che da tempo sta battendo sulla necessità di una crescita economica (a cui Trump ha offerto una sponda), su un solco meno ideologico e più realistico.
(Foto: Twitter, @MarkKnoller, l’arrivo di Trump ad Hanoi)