La portavoce della Casa Bianca Sarah Sanders ha detto ieri che “un piccolo gruppo di peacekeeper americani”, circa 200 soldati, rimarrà in Siria per “un tempo indeterminato”. Non ha fornito altri dettagli, ma la dichiarazione è un altro shift sulla strategia americana: il presidente Donald Trump aveva annunciato a dicembre dello scorso anno che i soldati sarebbero partiti entro un mese; così non è stato e altri funzionari dell’amministrazione hanno rassicurato gli alleati che la presenza statunitense (che ha funzione diretta anti-Is e meno esplicita di contenimento minimo dell’occupazione iraniana) sarebbe andata avanti per altro tempo; il Pentagono ha poi fatto sapere che la tempistica minima era quattro mesi e attualmente ci si aspetta che il ritiro avverrà entro fine aprile. Ora la Casa Bianca fa sapere che non sarà un “ritiro totale” come annunciato dal presidente, ma un nucleo di quelle forze speciali che stanno battendo il Califfato resterà nel Paese in forma ufficiale (poi altri team è presumibile che possano essere dispiegati in punti strategici, ma in versione più discreta).
Se Trump ha accettato di lasciare in Siria almeno il dieci per cento dell’attuale contingente è perché, anche dopo il cambio di vertice che la decisione del ritiro ha prodotto al Pentagono (l’ex segretario Jim Mattis si dimise in aperta protesta), i militari continuano a credere che un’uscita totale possa creare problematiche, tra cui i presupposti per la rinascita dello Stato islamico. E pure il nuovo segretario Patrick Shanahan, che ha una linea molto più trumpiana di Mattis (a lungo considerato uno dei cosiddetti normalizzatori dell’attuale presidenza), è d’accordo sul fatto che un completo ritiro americano dalla Siria potrebbe portarsi dietro: una rinascita del Califfato, un assalto turco alle forze curde (di questo e della creazione di una safe zone al confine siriano hanno parlato ieri al telefono Trump e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan) e un vantaggio per l’Iran in Siria. Il pensiero di Shanahan l’ha reso pubblico il senatore Lindsey Graham, che è un decano del Congresso piuttosto esperto di affari esteri e questioni mediorientali che Trump usa come consigliere. Graham, che ha una posizione più classica del presidente (e per questo le sue relazioni con lo Studio Ovale sono apprezzate dai Repubblicani), ha lavorato nei mesi scorsi per far tornare Trump sui suoi passi a proposito della Siria.
Ieri il segretario americano ha incontrato al Pentagono il collega belga Didier Reynders, che ha commentato: “Stiamo aspettando la preparazione del ritiro delle truppe statunitensi e siamo pronti per ulteriori discussioni sul modo di preparare qualcosa”. Quello che dice il belga è sostanziale, perché l’aumento dell’impegno degli alleati in Siria in sostituzione del ritiro statunitense è parte della strategia della Casa Bianca, che inserisce il dossier siriano in un quadro molto più ampio che riguarda il riassetto, riequilibrio e disingaggio degli Stati Uniti da molte questioni, su cui contemporaneamente Washington richiede un aumento di coinvolgimento e impegno degli alleati. Venerdì scorso, durante l’appuntamento annuale globale che la Conferenza sulla sicurezza di Monaco rappresenta, è stato di nuovo Graham a dettare la linea: gli Stati Uniti chiedono a Francia, Germania e Regno Unito di riempire quei vuoti che il ritiro americano dalla Siria si porterà dietro. In un passaggio meccanico per gradi, forza e importanza, come l’America cerca di far leva su alleati europei che inevitabilmente su certe questioni vivono una situazione di subordinazione, alcuni Paesi europei spostano il dossier sulle mani di alleati minori e la palla arriva in Belgio, per esempio.
Di questa volontà – dei contatti transatlantici ha parlato per primo il Wall Street Journal a gennaio (un giornale abbastanza vicino alla presidenza che interpreta in forma più potabile le posizioni trumpiane più di rottura, come questa enorme del riequilibrio del ruolo americano, una necessità sentita da Washington già prima di Trump) – ha parlato in maniera meno diplomatica lo stesso presidente. Domenica scorsa, Trump ha twittato un’offerta chiara agli europei: se gli Stati occidentali alleati americani non accetteranno di riprendere nelle proprie galere i prigionieri dello Stato islamico (detenuti attualmente nei luoghi di detenzione siriani curati dai miliziani curdo-arabi che hanno gestito la campagna anti-Is con le forze speciali americani, protetti dagli alleati della Global Coalition) saremo costretti a liberarli. Ça va sans dire che il rischio è che, una volta liberati, prendano la strada europea come terroristi di ritorno ancora infervorati dalla predicazione jihadista che chiede loro di colpire i miscredenti con ogni mezzo all’interno dei loro Paesi.
Questa dei prigionieri è una faccenda complessa – tanto quanto l’aumento di truppe in Siria – per gli europei, dove nessuno del governo Ue ha ancora un piano per gestirli e il rischio è che ognuno scelga una strada propria per ragioni di sicurezza interne. Parliamo di circa cinquemila persone: ottocento ne hanno i curdi, degli altri non c’è traccia ufficiale. Lunedì, Londra ha revocato la cittadinanza a Shamima Begum, una diciannovenne che era partita per la Siria per appoggiare da sposa il jihad califfale quando non aveva ancora compiuto 15 anni. Shamina è diventata una star del problema dopo che la scorsa settimana s’è consegnata nelle mani dei curdi che stanno liberando l’ultima sacca di resistenza territoriale in mano al Califfo e ha concesso varie interviste ai media britannici sul posto. Lei, che non si è mai pentita, dice di essere scioccata dalla decisione del governo inglese, perché adesso – dopo aver visto due dei suoi figli morire e con il terzo arrivato da poco – vorrebbe rientrare nel Regno Unito, ma per Downing Street è stata organica complice del Califfato, e gli inglesi non la rivogliono (ha genitori bengalesi, ma non passaporto, e anche Dhaka la respinge). Sul complicato contesto di questa “Guantanamo Europea”, Daniele Raineri ha scritto un articolo sul Foglio, ma la questione non riguarda solo l’Ue: “Ci sono 500 iracheni, diversi tunisini e altri catturati durante l’assalto all’ultima enclave del gruppo” scrive Raineri – tra l’altro sono tutti combattenti che “sanno diverse cose” (e dunque sono un capitale per il contrasto al futuro dell’organizzazione).