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Perché l’accordo con la Cina tirerà fuori l’Italia dal G7. Lo scenario di Forchielli

forchielli

E se l’infatuazione italiana per la Cina portasse il Paese fuori dal G7? Non è da sottovalutare la suggestione lanciata questa mattina su LinkedIn da Alberto Forchielli, managing partner di Mandarin Capital Partners ed economista non certo sospettabile di pregiudizi verso l’ex Celeste Impero che conosce come le sue tasche. Forchielli non è avvezzo alle mezze parole, e questa volta fa sul serio: “Osservando le reazioni dei media e dei governi occidentali non escludo che l’Italia venga espulsa dal G7 e rimpiazzata dall’Australia e il G7, ora morente, venga rimodellato come organismo di China containment”. Il lauto pranzo imbastito dall’Italia per ospitare la delegazione cinese guidata da Xi Jinping e firmare una pila di intese commerciali, oltre al famigerato memorandum sulla Belt and Road, potrebbe dunque far alzare il Paese da un’altra tavola, forse un po’ invecchiata ma decisamente più promettente.

Se c’è una cosa che unisce questa amministrazione Usa ai suoi più stretti alleati, questa è la diffidenza per gli investimenti a buon mercato dei cinesi e i piani egemonici sottesi alla novella Via della Seta. Canada, Francia, Giappone, Germania, Regno Unito, uniti a Washington nella formazione del G7, hanno tutti mostrato più di qualche remora verso le mire di Pechino. Il governo canadese è coinvolto in una feroce crisi diplomatica con Pechino da quando ha messo in manette a Vancouver il 1 dicembre la direttrice finanziaria e figlia del fondatore di Huawei Meng Wanzhou. Da lì è partita la rappresaglia cinese fra diplomatici arrestati come “minacce alla sicurezza nazionale” e processi rapidamente trasformati in condanne a morte. Per di più Canberra sta valutando un blocco del mercato 5G alle aziende cinesi su pressione degli americani. I governi inglese, tedesco, e francese hanno tutti messo dei paletti alla presenza delle compagnie made in China nella banda ultralarga, e hanno storto il naso di fronte al corteggiamento cinese per la mastodontica via infrastrutturale di Xi. Che dire invece del Giappone, che sulla partita del 5G si è allineato subito alla linea americana?

Rimane un ultimo tassello della compagine dei più industrializzati Paesi “occidentali”: l’Italia. Apponendo la sua firma su un memorandum onnicomprensivo sulla nuova Via della Seta cinese, e aprendo alla partecipazione di aziende cinesi all’implementazione della rete 5G, il governo italiano sarà il primo Paese G7 a fare un balzo verso Oriente, con tutte le conseguenze del caso.

Pensare a un re-styling della formazione che escluda l’Italia non è fantascienza. È noto a tutti che il G7 abbia perso colpi ultimamente, cedendo il passo ad altri tavoli decisionali come il G20, una compagine che racchiude in sé l’80% del Pil e i 2/3 della popolazione mondiale. Complice l’assertività dell’amministrazione Trump, negli ultimi due anni si sono moltiplicate le divisioni fra i 7 Paesi membri, e il risultato è stato uno stallo dopo l’altro, specialmente su quel che concerne clima e commercio. Tanto che i comunicati congiunti che chiudono le riunioni dei leader si sono fatti sempre più vaghi, segno di una mancata unità sulle scelte di fondo.

È tempo di una riforma, dicono gli esperti in coro. Per farlo serve trovare un nuovo collante che unisca i partecipanti e faccia tornare il G7 ai vecchi fasti. Come ha ben detto Forchielli, il “contenimento” cinese può essere l’ingrediente vincente. È quello su cui sta puntando questa amministrazione Usa nel ridisegnare e smussare le vecchie alleanze. Il caso del pressing americano contro Huawei è eloquente. Non sarà una “Nuova Guerra Fredda” come sostengono autorevoli voci accademiche, ma è certo che il confronto Stati Uniti-Cina stia tracciando una nuova mappa geografica e chiami in causa i rispettivi alleati. Una formazione chiave come il G7 non ne sarà esentata. E qui spunta il dilemma sul futuro della membership italiana. Dopotutto finora la geopolitica è stata uno dei pochi campi su cui gli Stati G7 si sono trovati d’accordo. Resti a memoria il forfait al summit di Sochi del 2014 concordato all’unanimità dai 7 Stati per dare addio al G8 ed escludere la Russia dal tavolo decisionale finché non avesse rispettato gli accordi di Minsk.

La passione per la Cina di Palazzo Chigi può compromettere dunque la partecipazione italiana al G7. Mancherebbero i requisiti strategici, ma anche economici per accreditarsi fra i 7 Paesi occidentali più sviluppati, visto che l’Italia è formalmente entrata in una “recessione tecnica” e, nota lapidaria la Bbc, l’economia italiana è “ben lontana dal boom”. Alla porta ci sono altri Paesi pronti a prendere il posto. L’Australia, che sul contenimento cinese è perfettamente allineata a chi del G7 ha le chiavi di casa, gli Stati Uniti, è in cima alla lista. E non è detto che ci sia spazio per tutti.

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